Franco Battiato - Apriti Sesamo (Universal)

A dirla tutta e forse in contro-tendenza: di Battiato continuo a preferire l’oscuro sperimentalismo pre/post “…corde di Aires” e l’iconoclastia pop dei suoi anni Ottanta. In altre parole: si può scrivere senza peccare di lesa maestà che il cantautore inarrivabile è stato quello elettro-sinfonico antecedente alla collaborazione con Manlio Sgalambro, e che - tolta le parentesi dei tre “Fleurs” - le songs a seguire sono state, per lo più, una reiterata mise en abyme dei suoi topoi, appesantite dall’ingerenza del filosofo-collaboratore? Della (ex) factory battiatesca (Camisasca, Alice, Giuni Russo, persino Milva, per fermarmi ai più noti), Sgalambro è la personalità a lui meno contigua, diventata, per contrappasso, quella più “condizionante”. Da “L’ombrello e la macchina da cucire” fino a quest’ultimo “Apriti sesamo” l’impronta mistico-sufi, siculo-anglofona, saggio-citazionista di Battiato è rimasta identica, è scomparso però il contraltare della leggerezza. Troppa metafisica per i miei gusti: non mi prende, non ci arrivo, non riesco a godermela fino in fondo, ma è colpa mia. Sarà che in una vita precedente sarò stato un’entità di poco superiore al protozoo e che in quella attuale i format alla Voyager li bandirei dai palinsesti della galassia intera, ma gli album di Battiato Novanta-Duemila-e oltre li abbandono presto. Dopo un po’ finisco col non ascoltarli più, come mi capita invece di (ri)fare col trittico delle meraviglie “L’era del cinghiale bianco”-“Patriots”-“La voce del padrone” (e persino con “L’arca di Noè” e “Mondi lontanissimi”, toh!). Se ci fermiamo ai contenuti, in “Apriti sesamo” la sopra evocata teoria della metempsicosi (“Cristo nei vangeli parla di reincarnazione”; “Prepariamoci a nuove esistenze”; “Vorrei tornare indietro nella mia casa d’origine/ dove vivevo prima di arrivare qui sulla Terra”), implica, per esempio, un eccesso di sospensione di credulità, per uno come il sottoscritto, sedotto (e abbandonato) dalle canzoni che cantano pane al pane & poesia a poesia però ben piantata sulla Terra. Intendiamoci bene, a scanso di equivoci: il mio verdetto sul disco è lungi dall’essere negativo (sarei sordo, pazzo, incompetente, in mala fede), è soltanto che a un certo punto scade (soprattutto verso il finale di scaletta) e, per il resto, il senso di dejà vu tematico è molto presente: hai come l’impressione di passare da un sermoncino all’altro sulla vie della saggezza. Restano il merito di una coloritura misurata degli arrangiamenti (meno rock e più cantautorale) e quello della coerenza che, in epoca di lobotomie di massa e canzoni-saponetta, osa citare Dante (“fatti non fosti a viver come bruti”, in “Testamento” ), Santa Teresa D’Avila (“Un irresistibile richiamo”), il sacerdote e musicista del Seicento Stefano Landi (“Passacaglia”), il poeta arabo-siciliano Ibn Hamdis (“Aurora”), il compositore Christoph Willibald Gluck (“Caliti junku”). Certo le frecciatine all’indirizzo di tempora e mores si attestano sul generico (non che siano obbligatorie, ma se le fai meglio i nomi e cognomi che la vaghezza della serie “come siamo caduti in basso alla faccia del cinghiale bianco: “Lo vedi questo aumento di follia e di violenza? Il mondo fuori è insano, è foriero di mali; “le cattive notizie in questi tempi ci sommergono”), e però stiamo parlando del Battiato in odor di anacoresi, mica del Bertoli più ferro & fuoco. Di “Apriti sesamo” mi convince fino in fondo un terzetto di brani (la commovente“Testamento”, la rimembrante “Quando ero giovane”, e soprattutto l’irresistibile con sostanza “Passacaglia”, che vale da sola il costo del cd), il resto lo condurrei alla media (peraltro alquanto elevata) del musicista. Un colpo al cerchio dell’empireo un altro alla materia, uno alla mitologia biblica (“Il serpente”) uno alla favolistica araba, uno sguardo a oriente e l’altro a occidente, tra innumerevoli arditezze armoniche, accelerazioni/decelerazioni/interruzioni di tempo (nella fattispecie musicale). Niente di nuovo, insomma, sotto il sole battiatesco: il disco è onesto, risolto, colto, sincero, ma tolto qualche sprazzo poco aggiunge e poco toglie alla discografia più recente del genio (questo è indubbio) catanese. 


Mario Bonanno
Nuova Vecchia