Disco per gli amanti della chitarra acustica, “The big sound” di Francesco Franciosi, in arte Ciosi - artista diretto e appassionato di cui abbiamo già parlato in queste pagine - approfondisce l’idea di un racconto tutto personale e tecnicamente coerente. L’album raccoglie in tutto quattordici tracce: alcune di queste sono omaggi ai maestri del bluegrass e, in generale, al flatpicking, altre ripercorrono in modo più esplicito l’idea di raccontare, in chiave più o meno diretta, alcuni aspetti autobiografici. In generale, però, ogni passo di questo album partecipa di un circuito, di una circolarità, che riporta tutto all’ordine della chitarra. Questo processo si incastra evidentemente nelle produzioni precedenti del chitarrista italo-argentino, anche se qui sembra assumere un profilo più netto. Grazie a tutti quegli elementi che possono essere ricondotti alla passione sempre piena di trasporto e intimità con uno strumento suonato con decisione e competenza. Forse più che in passato, in “The big sound” la chitarra assume un ruolo non semplicemente di primo piano (è evidente che tecnicamente lo abbia), piuttosto diviene una specie di ispirazione inevitabile, che spinge e soprattutto orienta la scelta dei contenuti, l’ordine dei brani in scaletta, la narrazione di una simbiosi interessante tra l’esperienza e il mezzo per esprimerla. Dalle parole che Ciosi pondera nelle note all’album emerge proprio quella circolarità empatica, che altro non è (si potrebbe azzardare) che la voglia di interrogare il proprio strumento. Indagandone le peculiarità timbriche e le possibilità ritmiche o armoniche, ma anche estrapolandone i caratteri che meglio lo denotano. Vale a dire gli spazi che genera quando diviene l’unica voce possibile, il fattore unico che spinge al movimento, alla scrittura e alla rappresentazione. Sembra che Ciosi sia riuscito a comprenderne molte possibilità, sia quando si rivolge al passato e ai repertori “classici” (vi sono, come dicevo, omaggi ai maestri imprescindibili: Lester Flatt con “Rolling in my sweet baby’s arms”, J. B. Lenoir con “Alabama Blues”, A. P. Carter con “The ciclone of Rye Cove”), sia quando si sofferma su sé stesso, interpretando ricordi, relazioni, esperienze e visioni con chitarre diverse e sempre equilibriate. Il punto più alto di questo ideale circolare che avvolge l’album è probabilmente “Dream guitar”, brano già presente nell’album “My first time” di qualche anno fa, che qui ricompare in una veste nuova, grazie anche alla presenza di Gianni Sabbioni al contrabbasso e Massimo Tuzza alle percussioni. Ciosi lo dedica alla sua Santa Cruz modello 1934 D Mahogany. E io trovo che questo rimbalzo dia pienamente il senso dell’album e, in generale, della prospettiva inclusiva di questo musicista. Perché assume i tratti di una nuova narrativa musicale, pensata “dentro” la chitarra, scaturita intorno a un corpo che si fa sempre più articolato e complesso. Un corpo non (retoricamente) unico, anzi (realisticamente) multiplo, che nel rimbalzo delle prospettive di indagine dispone gli elementi significativi in un nuovo ordine. Se si può parlare di sperimentazione in un album acustico e quasi di sola chitarra (in alcuni brani si aggiungono contrabbasso, percussioni e armonica), lo si può fare solo in questo senso. E non credo sia poco. Sulla base di questo, poi, nascono i brani più profondi, nei quali si riconosce l’attenzione di Ciosi per il suono e l’atmosfera (“Mediterranean’s shell”), oltre che per la struttura, per l’andamento deciso ma elegante (“To David”, l’omaggio al pioniere del flatpicking David Grier) e il ritmo solido (“Nashville Blues”), per la precisione di un tocco che non inibisce l’armonia (“First snow”), per l’apertura a una melodia e a uno scenario profondi: “Silvia’s eyes”.
Daniele Cestellini
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