Linguamadre – Il Canzoniere di Pasolini (Autoprodotto, 2020)

“Linguamadre” è uno dei progetti che hanno scosso l’ambito delle musiche attuali ispirate alla tradizione orale, perché originato da quattro tra i migliori giovani musicisti che hanno maturato un atteggiamento rispettoso verso le espressioni musicali tradizionali ma che, al contempo, si mostrano desiderosi di allontanarsi dalle procedure di stampo folk revivalistiche. Parliamo di Simone Bottasso (organetto, flauto), Nicolò Bottasso (violino, tromba), Elsa Martin (voce) e Davide Ambrogio (canto, chitarra, zampogna a paro, lira calabrese). A monte, “Linguamadre” è originato dalla sinergia tra differenti figure professionali, è stato un allestimento caldamente promosso da Jacopo Tomatis, direttore artistico del Premio Loano per la Musica Tradizionale Italiana che nel 2019 ne ha ospitato la premiere, cui sono seguite le performance alle manifestazioni “amiche”, “Mare e Miniere” e “Premio Parodi”. Com’è noto, Pier Paolo Pasolini nel “Canzoniere Italiano” pubblicò un corpus di circa 800 canti, organizzati in ordine geografico da nord a sud, con un’appendice sui canti militari e sui canti infantili. Da qui l’ipotesi di intessere il filo tematico della “madre”, figura centrale per Pasolini ma anche di molti motivi tradizionali, per musicare e (ri-) dare voce alle poesie raccolte dall’intellettuale friulano, rilette con il senso estetico e le procedure sonore di chi oggi suona e interpreta in maniera creativa musiche di tradizione orale. Dopo le esibizioni festivaliere, il “Canzoniere” pasoliniano è diventato un album live in studio pubblicato in formato digitale. Con Elisabetta Malantrucco ne abbiamo chiesto il senso a Enrico de Angelis, il quale ha avuto l’idea primigenia per la produzione di Loano, e a Simone Bottasso, uno dei magnifici quattro artefici.

Enrico de Angelis, come è nata l’idea?
Enrico de Angelis - Collaboro e sono amico del Premio Loano. Siccome il festival ogni anno cerca di produrre un progetto originale, sono anni che pensavo potesse essere cosa buona e giusta ricordare e omaggiare un lavoro fondamentale di Pasolini che è il “Canzoniere” italiano, uscito nel 1955 con il sottotitolo “Antologia della poesia popolare”. Si tratta di un omaggio soprattutto affettivo che poi è stato sviluppato da musicisti bravissimi, in maniera molto creativa e innovativa. Posso dirti che il “Canzoniere” - che nel tempo è stato criticato perché, per così dire, è arrivato troppo presto - ha comunque un’importanza molto grande nella storia della musica italiana. Certo: Pasolini l’ha fatto non da specialista e da scienziato della materia, ma da profeta e da poeta come era lui. Profeta perché ha anticipato – ha lavorato tre anni a questa cosa,  dal ‘52 al ‘55 - tutto il grande interesse per la cultura e la musica popolare che è esploso subito dopo o comunque contemporaneamente e senza che lui ne fosse al corrente.

In che modo il “Canzoniere” è stato criticato?
Enrico de Angelis - Da un punto di vista scientifico. Questo lavoro aveva e ha tuttora dei limiti soggettivi e oggettivi. Dei limiti oggettivi perché Pasolini non era un ricercatore, tanto meno sul campo: era uno studioso, un intellettuale coltissimo che ha analizzato una bibliografia sterminata in merito alla poesia popolare, che però era antiquata e non rispondeva a criteri scientifici. Quindi, per fare un esempio, non essendo un ricercatore non ha documentato le varianti che sono proprio il sale della tradizione popolare; ma soprattutto il grande limite evidente del “Canzoniere” è l’assenza delle musiche: Pasolini non ha raccolto le musiche e ha fatto un lavoro da poeta.
Però l’interesse e la profondità con cui ha analizzato tutta questa bibliografia così antiquata e poco scientifica sono importanti: ha fatto un lavoro immenso; la stessa bibliografia del lavoro è enorme e parte dall’inizio dell’Ottocento fino agli anni suoi, cioè a metà degli Anni ’50, quando non esistevano ancora degli studi moderni di etnomusicologia come li conosciamo ora. Dicevo che lui ha fatto questo lavoro da poeta. Addirittura, nel farlo, si contraddice - e ammette di contraddirsi e in questo è geniale come è sempre lui - perché cerca di prendere le distanze da una metodologia romantica nei confronti del canto popolare, però poi lui stesso in qualche modo è romantico e lo ammette, perché da questa enorme bibliografia sceglie usando criteri estetici e poetici; e lo dice, anche se cerca di giustificarlo in un modo o in un altro.

Però è anche la bellezza di questo “Canzoniere”!
Enrico de Angelis - Certo! Perché viene fuori il Pasolini poeta che noi tutti amiamo in quanto tale. Vediamo criteri di bellezza uscire fuori da tutte le parti; in più la sua capacità di studioso emerge nell’acutezza con cui in ogni caso analizza le varie metodologie di studio dal primo Ottocento a metà anni Cinquanta. Sa fare dei distinguo tra una scuola e un’altra, tra un autore e un altro: si tratta quindi di una lettura molto interessante perché, forse non l’ho ancora detto, questa raccolta di quasi ottocento canti è preceduta da una introduzione molto corposa: un saggio notevolissimo. E naturalmente è stato facile con il senno del poi contestare i limiti di cui abbiamo parlato: oggettivi perché mancano le musiche e soggettivi perché alla fine ha messo dentro quello che piaceva a lui.

Manca la musica, malgrado l’amore di Pasolini per la musica...
Enrico de Angelis - Sì, ma il fatto che non labbia messa non vuol dire che non fosse interessato alla musica. Laura Betti nelle interviste radiofoniche dice che a lui piaceva pure ballare. Aveva ad esempio scoperto e valorizzato pure la “Missa Luba”, no? Una messa fatta con lo stile dei canti tradizionali nel Congo. Amava profondamente la musica classica: insomma, Pasolini non poteva fare a meno della musica. E la prova del nove è che lui ha scritto testi per canzoni.

Per quanto criticabile, questa operazione mostra la sua capacità visionaria, perché ha anticipato i tempi.
Enrico de Angelis - Assolutamente sì, per questo ho detto che è profetico: l’ha fatto a modo suo ma l’ha fatto. Lui non si rendeva conto che stava nascendo in Italia l’etnomusicologia registrata sul campo, anche sui suoni però ha un’intuizione: lui non mette le musiche ed è un paradosso, visto che si tratta di canto orale, però a un certo punto c’è un passo di cinque o sei righe dove si capisce che invece ha capito tutto, perché afferma che basterebbe avere un magnetofono e sentire certi canti infantili per capire come cambia completamente tutto, cambia ogni prospettiva; non sono le parole esatte che ha usato ma è questo il senso, dimostrando di essere consapevole che cera un altro lavoro da fare oltre al suo, che poi è quello che stavano cominciando i vari Lomax in Italia.

Per le interviste integrali a Enrico de Angelis e a Simone Bottasso, a cura di Elisabetta Malantrucco, si rinvia al programma “Note a margine”.

Simone Bottasso, come siete stati coinvolti in questo progetto dei tre premi?
Simone Bottasso - Siamo stati coinvolti per musicare le poesie contenute nel Canzoniere italiano da tre festival che già ci conoscevano, nel senso che ognuno di noi aveva già avuto un contatto col premio Loano, col “Premio Parodi” e con il Festival “Mare e Miniere”; sono anche i posti in cui ci siamo conosciuti tra di noi.

Vivete in posti diversi come avete fatto e con quali tempi?
Simone Bottasso - Non ci conoscevamo tutti, nel senso che Elsa Martin l’abbiamo incontrata per la prima volta a Loano in quei quattro giorni in cui lo spettacolo è stato provato la prima volta. Dico provato e non creato perché nei mesi precedenti, anche se non potevamo vederci ci siamo sentiti su Skype accordarci su dei modi di leggere il “Canzoniere” e sul possibile suono che poteva avere questo spettacolo. Ognuno di noi ha pensato e scritto degli arrangiamenti e nei quattro giorni di Loano abbiamo fatto una full immersion abbastanza impegnativa in cui abbiamo provato gli arrangiamenti scritti e modificato quello che non funzionava. Essendo tutti giovani, molto aperti al crossover, musicisti e cantanti versatili e malleabili, con ascolti musicali variegati e talvolta condivisi, non è stato difficile trovare un suono comune ed interpretare al meglio con i propri strumenti l’idea di ogni compositore. Ovviamente adesso che ci conosciamo meglio la scrittura di nuove musiche è più semplice, perché conosciamo non solo le potenzialità di ogni componente della band, ma anche che cosa gli piace interpretare o quale ruolo si addice a lui.

Con criterio avete scelto i materiali?
Simone Bottasso - Ci sono veramente un’infinità di poesie bellissime, scelte tra l’altro da Pasolini con criteri dichiaratamente estetici e questa cosa ci ha anche legittimato a credere in noi stessi, a credere nelle nostre cose, in quello che ci piace fare; abbiamo scelto il tema della Madre, della lingua madre, che è appunto il nome del progetto, per due motivi: il primo è il legame fortissimo che Pasolini aveva con sua madre presente in tutti i suoi lavori e il secondo è il discorso di provare a rappresentare tutte le singolarità degli idiomi italiani regionali e dei dialetti che a quell’epoca si stavano sgretolando per andare incontro all’italiano; inoltre, a livello proprio di linguaggio musicale, anche noi quattro musicisti proveniamo da quattro linguaggi musicali diversi; forse io e mio fratello siamo più legati perché suoniamo insieme da sempre però abbiamo idee musicali e dei modi di fare musica diversi e cerchiamo di combinare questi quattro linguaggi differenti in un’unica lingua.

Avete scelto di cantare cose in lingue non vostre: per quale motivo?
Simone Bottasso - Non c’è stata nessuna imposizione: eravamo liberi di esplorare il “Canzoniere” come volevamo. Personalmente, quando ho aperto il capitolo dei canti piemontesi, ho visto che mancava molto la musica alpina a cui probabilmente Pasolini non aveva avuto accesso attraverso i libri che aveva trovato sulle musiche del Piemonte o forse non le aveva scelte per certi motivi; quindi mi sono fiondato in Sicilia con una serie di brani sugli indovinelli e devo dire che per me è stato piacevole andare ad esplorare altre regioni, perché mi ha permesso di ritornare in contatto con persone che essendo espatriato all’estero non avevo più modo di incontrare, di sentirli, di parlare insieme di canzoni e della pronuncia.
Per me è stato molto utile; in realtà poi l’obiettivo era quello di rappresentare tutta l’Italia, cosa che in uno spettacolo di un’ora è difficile da fare; abbiamo cercato di mantenere un equilibrio.

Pasolini ha fatto il “Canzoniere” sicuramente per non disperdere una tradizione che si stava sgretolando. Facendo un’operazione importante perché noi siamo anche il modo in cui parliamo e non solo il viceversa. O no?
Simone Bottasso - Assolutamente: a proposito degli indovinelli di cui ti parlavo prima, mi sono trovato in Olanda a condividerli con tantissime persone di tutto il mondo e mi sono reso conto di quanto queste immagini, questa fusione tra immagine e linguaggio che si trova molto nella poesia popolare italiana è una roba veramente solo nostra. Tante persone hanno avuto difficoltà a capire questi indovinelli che erano davvero molto immaginifici e per me molto italiani, non solo siciliani; quando mi sono trovato a parlarne con bulgari, francesi e norvegesi, iraniani, mi sono reso conto che per loro era un corto circuito.

In che misura i testi che avete scelto vi hanno portato a cercare determinate soluzioni musicali?
Simone Bottasso - Innanzitutto i testi che abbiamo scelto sono sempre legati alla parola chiave “Madre” nelle sue diverse accezioni: dalla figura materna, al dialetto come lingua madre che negli anni è andata perdendosi, alla madre-terra, ad una forza esoterica o generatrice, all’infanzia, etc… Dopo aver scelto il tema, e di conseguenza aver dato il nome “Linguamadre” al progetto, la nostra scelta dei testi è avvenuta nello stesso modo con cui Pasolini ha selezionato il materiale: in maniera puramente estetica, non scientifica, né storica né etnomusicologica. In molti brani il suono delle parole in dialetto è stata la guida principale per la composizione delle melodie e per la costruzione degli arrangiamenti: penso per esempio alle ninne nanne che ha arrangiato Elsa Martin
e al suggestivo brano “Ka di ka di”, di Davide Ambrogio. In “Cosmogoya”, un pout-pourri di 4 miniminagghie (indovinelli) siciliane, ho cercato di descrivere in musica la soluzione dei diversi indovinelli; uno di questi ha addirittura sette soluzioni! In “Sur Capitani” testi apparentemente lontani e contrastanti sono stati unificati dallo sviluppo narrativo della musica; ho immaginato un flash back introspettivo nel cuore di una madre che, scoprendo di aver perso un figliolo in guerra, ripercorre la sua infanzia e la sua crescita. In altri brani il contenuto e il contesto della canzone sono stati determinanti per le scelte musicali; penso a “Boves”, il canto partigiano che narra le vicende della città in cui io e Nicolò siamo nati e vissuti. In “Donna Candia”, il brano che apre il disco, viene trattata la tematica sempre attuale della dignità delle persone che migrano, ritrovata da Nicolò in un testo tradizionale calabrese. Nel suo arrangiamento il testo originale è cantato in modo tradizionale, mentre la visionaria poesia di Pasolini “Profezia” diventa un materiale per improvvisare su un’atmosfera musicale che ricorda i Radiohead.

Cosa non avete preso dell’approccio del folk revival?
Simone Bottasso - Rispondo in maniera molto personale, cogliendo l’occasione per riportare alcune analisi che ho fatto sul mio rapporto con il folk revival, proprio quando cercavo di capire se che quello che stavo facendo fosse folk, folk revival, o altro. Oltre al fatto di approcciare la musica tradizionale senza considerarla un’entità intoccabile, sicuramente gli elementi che non provengono dal folk revival sono l’esplorazione di nuove forme musicali, la ricerca timbrica, un arricchimento armonico verso la dissonanza, la ricerca di un nuovo equilibrio, non solo come volume, tra la voce e gli strumenti musicali e l’esagerazione delle possibilità dinamiche. La forma musicale significa come si organizza un arrangiamento, una composizione.
Come si alternano le strofe a un ritornello in una canzone, come la narrazione musicale viene organizzata nel brano. Liberarsi dalla forma canonica della forma-canzone o dalle forme ancora più chiuse delle danze tradizionali, ci ha sicuramente permesso di accostarci ai testi di Pasolini in modo più libero e coerente con la sua ricerca. Pasolini non ha incluso note, pentagrammi o registrazioni delle musiche originali nel suo “Canzoniere”, e secondo noi l’unico modo per rispettare la sua scelta artistica era comporre nuove musiche e nuove melodie che assecondassero il testo popolare ed esprimessero al meglio l’emozione che suscitava in noi. Per tornare alla forma, io trovo - come anche sosteneva Bartòk - che l’urbanizzazione e lo spostamento verso la città abbia appiattito la varietà della musica tradizionale; non a caso nelle zone montane o rurali si trova ancora musica non in 4/4, o con variazioni improvvise del tempo musicale, o con strutture formali non basate sulla ripetizione di 4, 8 o 16 battute, o ancora con scelte armoniche o scale musicali inusuali. Penso che nel folk revival raramente si mettano in discussione i timbri (che significa la qualità dei suoni) degli strumenti tradizionali ed i loro ruoli: spesso si sono accostati strumenti estranei a una tradizione, per dare un suono moderno e creare un linguaggio crossover, ma raramente si fanno profonde ricerche timbriche sugli stessi strumenti tradizionali, per esempio ragionando per contrasto e dando ad uno strumento un ruolo diametralmente opposto a quello per cui è nato.

La duttilità dei cantanti vi ha aiutato non poco …
Simone Bottasso - La versatilità delle voci di Davide ed Elsa permette di considerarle al pari di strumenti musicali, quindi non solo veicolo di parole e di bellezza, ma anche capaci di creare dissonanze ed eseguire melodie complesse, come farebbe uno strumento musicale; strumenti nati per svettare sopra gli altri, come il violino, possono diventare un motore ritmico che sostiene l’intero ensemble, come farebbero una batteria o un basso elettrico, semplicemente con un suono diverso. La ricerca timbrica è indipendente dal genere musicale e non è legata alla musica d’arte, o alle "musiche difficili da capire": ovviamente questa ricerca è partita dalle sperimentazioni dei compositori colti del ‘900, ma pensate oggi a quanto il timbro sia centrale nella chitarra di Paolo Angeli, nel sassofono di Colin Stetson o nella tromba di Peter Evans, nella musica ispirata dalle diverse forme di canto
tradizionale del coro newyorkese Roomful of Teeth, nella musica minimalista di Steve Reich, la cui ricerca è basata sul sommare timbri identici, ma per restare più vicini a” casa” anche nel disco Taranta Project di Ludovico Einaudi, dove scelte di mix a volte “impossibili” e surreali danno una nuova veste timbrica alla musica del Sud Italia. Spesso nei progetti di folk revival la voce occupa un ruolo centrale e lo strumento musicale deve limitarsi ad accompagnare, senza disturbare. E ovvio che per comprendere una storia cantata sia necessario sentire chiaramente le parole ma... a volte una voce confusa, in lontananza, ci potrebbe dire più cose della voce “in faccia” delle canzoni di cui i media ci imbottiscono le orecchie quotidianamente. Pensate alle voci fuori campo di un film, o ad un coro fuori scena in un’opera lirica, o quando in un film in lingua originale c’è un passaggio senza i sottotitoli, in cui il regista ci obbliga ad ascoltare il suono delle parole più che il loro contenuto. Siamo quotidianamente bombardati da canzoni di tre minuti, il cui spettro sonoro è impacchettato ad hoc per non allontanare neanche per un istante l’attenzione dell’ascoltatore su un unico elemento: questo impoverimento rischia di limitare ed appiattire non solo la nostra intelligenza musicale, ma anche la fantasia dei musicisti stessi. Certe gerarchie possono essere messe in discussione. Per finire, la dinamica in musica significa il volume, l’intensità sonora. Nella pratica della musica tradizionale la dinamica è stata spesso ridotta al piano e forte, sicuramente perché molti strumenti popolari non hanno, o non avevano, grande possibilità di modulare la propria intensità sonora: penso alla zampogna, alla ghironda, al piffero, al tamburello. Secondo me estremizzare la dinamica, estenderne il suo range in tutte le sfumature che ci sono tra il silenzio ed il fortissimo, significa estendere le possibilità emotive di un ascoltatore: un canto urlato su un sottofondo di suoni delicatissimi e sussurrati crea sconcerto; un crescendo che dura per tutta una canzone, come in “Traguda!”, ti ipnotizza e ti fa riflettere su quanto l’evoluzione ed il progresso in tutti i campi debbano comunque sempre fare i conti con l’istinto e le reazioni innate dell’uomo.

Dal live di Loano al disco: come si è evoluto il progetto?
Simone Bottasso - Già dal primo incontro a Loano avevamo manifestato la voglia di produrre un disco contenente questi brani; inizialmente se nera parlato anche con i tre festival per cui abbiamo creato questo progetto. La natura delle produzioni speciali dei festival è purtroppo sempre effimera; dalle mie precedenti esperienze ho imparato che se si vogliono far sopravvivere questi progetti
gli artisti devono mettersi d’impegno ed investire molte energie per non sprecare un repertorio costruito appositamente, con cura e dedizione, per pochi concerti. Sono molto contento che tutti i musicisti di questo progetto abbiano continuato a dedicare tempo ed energie a “Linguamadre” per continuare questa esperienza!

Come avete costruito il live?
Simone Bottasso - Abbiamo lavorato a nuovi brani dopo Loano, ma in questo live non sono stati inseriti. Ci sono nel cassetto anche alcune nuove idee che presenteremo quando potremo suonare di nuovo insieme. Abbiamo riflettuto molto sulla playlist del concerto, cambiandola più volte fino a raggiungere un ordine che potesse rappresentare un bel viaggio, sia nella successione delle musiche che nei diversi modi di concepire la Madre, la figura chiave del nostro lavoro. Nel disco quindi l’ordine è rimasto invariato dal concerto. Abbiamo registrato il live durante un soggiorno a Roma lo scorso novembre, in uno studio con il pubblico in sala, con l’intenzione di pubblicare un video-clip live di 20 minuti. Doveva essere una sorta di Tiny Desk Concert. A causa di diversi problemi tecnici dello studio non si sono potute registrare tracce di backup o alternate takes dei brani; abbiamo registrato tutto quello che è contenuto nel disco con il pubblico in sala, durante il concerto, dopo un soundcheck durato diverse ore e anche qualche problema di ascolto durante il concerto. Quindi abbiamo deciso di procedere alla post-produzione audio e video del concerto, correggendo alcuni passaggi che non ci convincevano: io mi sono occupato della post-produzione, Walter Laureti si è occupato del mix e del mastering del disco. Valeria Taccone invece ha montato gli splendidi video che abbiamo pubblicato nei mesi scorsi su Facebook e Instagram. Questi video corrispondono esattamente alle tracce audio del disco, visto che sono stati filmati durante la registrazione.
Conoscendo i retroscena penso sia un bel miracolo che questo live sia uscito e a posteriori sono molto contento perché questo bellissimo progetto rischiava di cadere nel dimenticatoio, anche a causa della cancellazione del nostro tour per la quarantena.

Perché la scelta di pubblicare un live e solo in digitale?  
Simone Bottasso - “Linguamadre” meriterebbe una maggiore visibilità, vista l’importanza culturale di questo lavoro. Avevamo avuto contatti con produzioni per realizzare un disco in studio, ma se ne sarebbe dovuto riparlare non prima di un anno e, in generale, non avevamo percepito un grande entusiasmo e convinzione per questo progetto. Da parte nostra, con questa autoproduzione del live abbiamo tentato di trasformare in realtà ciò che di questo progetto era stato scritto sulla carta: una giovane produzione che sarebbe continuata anche dopo la presentazione nei festival che l’hanno ideata. Abbiamo quindi voluto documentare questo progetto prima che “Linguamadre” passasse nel dimenticatoio di una nuova produzione su un altro canzoniere, o degli altri nostri progetti solistici. Personalmente, inizio ad apprezzare sempre più i progetti registrati dal vivo, perché rispecchiano sinceramente e realisticamente quello che i musicisti fanno quando sono sul palco e dimostrano una grande intenzionalità nella composizione, nell’esecuzione e nella registrazione. Sono molto entusiasta del lavoro di preparazione della performance che è necessario prima della registrazione di un live e sono molto meticoloso nella fase di post-produzione. Il progetto “Music Through The Walls” mi ha insegnato molto da questo punto di vista: quando compongo musica tengo in considerazione che questa un giorno sarà eseguita, registrata, mixata, masterizzata ed eventualmente remixata. Mi piace pensare che la mia musica è Suono ed esiste indipendentemente dal contesto in cui viene suonata, o registrata, o pubblicata, o distribuita.
Registrare un live e pubblicarlo è anche un atto di rispetto nei confronti di tutto il processo che sta dietro alla creazione di un concerto: significa non sprecarlo, coglierne l’essenza più intima ed imparare a dare il meglio di sé durante la performance, anche quando questa avviene in condizioni non ottimali. Un bel sogno nel cassetto sarebbe quello di registrare le altre musiche che abbiamo composto e di continuare a musicare i testi del “Canzoniere” per un futuro disco in studio, possibilmente con ospiti che sappiano interpretare anche i dialetti che non conosciamo. Speriamo di trovare un produttore illuminato che si innamori di “Linguamadre”, che abbia esperienza nel far crescere un progetto a distanza come il nostro e che ci assista nella nostra grande fecondità artistica! Per quanto riguarda il supporto fisico: doveva esserci, ma il Coronavirus purtroppo ci ha messo in difficoltà su questo aspetto. Il supporto fisico non doveva essere necessariamente in forma di CD, visto che la maggior parte delle persone oggi non ha più un modo per riprodurlo. Questo è anche uno dei motivi per cui per questa auto-produzione abbiamo voluto affidarci alla piattaforma digitale Bandcamp, che è una forma di distribuzione degli artisti indipendenti in cui ciò che l’utente paga va in buona parte nelle tasche degli artisti, a differenza delle distribuzioni fisiche e digitali in cui ogni mediatore si prende una grossa parte dei guadagni e all’artista restano soltanto le briciole. E sconvolgente vedere che dopo solo un mese di vendita del live su Bandcamp abbiamo guadagnato più delle royalties ricevute negli ultimi anni da Spotify o dalle distribuzioni fisiche dei dischi del Duo Bottasso nei negozi. A differenza di Spotify, dove la musica è solo in streaming e in qualità sempre compressa, su Bandcamp la musica è scaricabile ed in alta qualità. Un’ulteriore differenza rispetto ad altri distributori digitali è che scaricando la nostra musica da Bandcamp si ottengono anche le grafiche e lo splendido libretto in PDF che ha fatto Nicolò, contenente tutti i testi del “Canzoniere” che abbiamo musicato.


Elisabetta Malantrucco e Ciro De Rosa


Linguamadre – Il Canzoniere di Pasolini (Autoprodotto 2020)
Non potendo alimentarsi al suono d’origine (i testi pubblicati da Pasolini erano privi di musica, anche se molti sono stati raccolti in seguito dalle campagne etnomusicologiche) Simone Bottasso, Nicolò Bottasso, Elsa Martin e Davide Ambrogio, forti delle loro eterogenee formazioni e provenienze, hanno deciso di imprimere un sound che reinventa i canti, privilegiando una scrittura musicale che investe sulla reazione emozionale, sulle timbriche, sulle relazioni e i ruoli tra voci (che vanno ben oltre la parola cantata) e strumenti, sulle procedure armoniche, non cercando l’ombrello protettivo della forma canzone. Sono fuori da schemi, non omologabili e convenzionali, sebbene un passaggio per una mano produttiva che “mitigasse”, le esuberanze compositive giovanili, limando e portando a concisione, sarebbe stata opportuna. L’intro buttittiano porta in sé tutta la drammaticità, così come è declamato dalla voce dalla grana “antica” di Davide Ambrogio. Il primo brano in scaletta è “Donna Candia” (autore Nicolò Bottasso), proposto per due voci collocate su un ostinato pizzicato del violino, con le armonizzazioni di organetto e di chitarra acustica che sviluppano il brano e accompagnano il crescendo canoro espresso in versi in lingua nazionale. Segue l’insieme di “Ninna nanne” venete nelle  quali svetta il canto flessuoso ed eterico di Elsa Martin. Un vertice del lavoro è “Tragùda”, canto grecanico di Calabria composto da Davide Ambrogio, che sconcerta, inebria e meraviglia proprio per lo scontro tra il suono delicato di corde, fiati e cori e la voce abrasiva dello stesso Ambrogio, fino al potente crescendo della sonata finale per zampogna a paro. “Boves” (luogo natale dei Bottasso) è un canto resistenziale - ricordiamo che Pasolini dedica il volume a suo fratello Guido, caduto nel 1945 sui Monti della Venezia Giulia -, in cui la variazione sulla melodia di matrice tradizionale si connota per gli incastri di voci, tromba, organetto e battito di mani. “Ka di ka di”, motivo arbëreshë molisano di Ururi in cui è invocato il ritorno nella propria terra, è un tema - opera di Ambrogio - che si caratterizza per le belle voci in unisono e il flauto che tesse trame sostenuto dalle corde. È la volta, poi, della canto narrativo piemontese “Sur capitani di Salusse”, saldato al motivo fanciullesco de “La fava”, un’altra composizione di Simone Bottasso dalle sfumature contemporanee e dall’andamento danzante vagamente “celtico” che intervalla il canto. Dopo le tinte lievi di “E a la vò”, ninna nanna di origine siciliana musicata dalla Martin, si giunge al traguardo con “Cosmogoya” e le “miniminagghie”, vale a dire degli indovinelli siciliani, dove a prevalere sono i contrasti tra le emissioni vocali e la libera digressione degli strumenti che finiscono per ritrovarsi nel finale. Oltre il folk, c’è Linguamadre.


Ciro De Rosa

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