Martino Vercesi 4tet – New Thing (Alessio Brocca Edizioni Musicali, 2019)

Sei bei lunghi pezzi compongono “New Thing”, il nuovo album che il chitarrista milanese Martino Vercesi propone in quartetto e che segue una discografia ricca di spunti, nella quale si possono ricordare (tralasciando altre prove uscite sotto vari nomi ed ensemble) gli album “Too Soon for a Gif” del 2014, “6 Haiku” e “Virgo Supercluster”, rispettivamente del 2015 e del 2017 . Dentro “New Thing” si incontrano i suoni classici di un jazz posato, di forte impatto ritmico ma molto equilibrato, costruito su una dialettica in cui chitarra, sax (Rudi Manzoni), batteria (Matteo Rebulla) e contrabbasso (Danilo Gallo) dialogano alla perfezione. L’impatto iniziale, quello da primo ascolto, rivela subito la necessità di un trasporto totale. Perché i suoni sono sempre compatti e gli strumenti si scambiano occhiate continue, tanto da far pensare spesso a un’unica esecuzione. O meglio, a un’esecuzione dentro la quale a ogni passo si può incontrare qualcosa che verrà dopo, o che è appena passato. L’esecuzione (insieme alla scrittura, di cui parleremo dopo) mantiene un ruolo preminente e, per questo, chi ascolta si lascia trascinare dentro un flusso coerente di pochi suoni, incastrati però in modo caleidoscopico. A volte – già dal primo brano “First coffe break” – sembra di poter vedere gli sguardi tra i musicisti, soprattutto negli scambi melodici, quando il sax subentra alla chitarra, e quando questa si abbassa a sostenere, con ritmo e presenza calibrati, il proseguo della melodia. La fine del brano è un piccolo capolavoro, perché si attesta su un volume sempre pieno, ma allo stesso tempo allarga le trame della narrativa del quartetto, lasciando emergere (alcuni tra) i motivi cardine del discorso principale, alcuni tra gli elementi di base che sorreggono il flusso della musica. Quindi – come si può notare – non è solo nella pienezza e nella compresenza che si gode della coerenza del disco, ma anche nelle fasi “discendenti”. In quello spazio, cioè, dove questi musicisti raffinati riescono a far trapelare la primigenia del loro suono, il blocco centrale attorno al quale lavorano. Certo, l’impianto jazz in questo aiuta, perché spinge alla varietà, all’alternanza tra un riempimento verosimilmente controllato e un processo di sottrazione tenuto ben stretto dentro quei fondamentali. Ma, a vedere più a fondo ci si accorge che non è una questione di struttura, né di impianto narrativo. È un processo legato alla percezione che i singoli elementi, in questo caso gli strumentisti, hanno di tutti gli altri (per questo accennavo all’immagine degli sguardi). Un processo che riconduce al valore performativo di questo album e all’interpretazione corale che gli interessati riescono a dare alla matrice scritta, alla composizione di Vercesi. Quest’ultimo, da parte sua, si attesta su registri sempre differenti, ribaltando le formule che si potrebbero immaginare. Il secondo brano in scaletta (che si intitola “He won’t get far”) è un ottimo esempio di questo procedimento di differenziazione. Fin dal prologo si attesta su un ritmo diritto e pieno, sorretto dalla chitarra insieme al contrabbasso e alla batteria. Il sax parte forte, dando subito la misura del brano, seguito da una batteria che riesce a ricavarsi brevi spazi quasi solistici. La chitarra si insinua con pochi accordi di passaggio, che si addensano gradualmente mentre si alternano a fraseggi melodici appena accennati. Solo quando si raggiunge l’intesa dell’acme prende forma la vera voce della chitarra, decisa a cambiare tono e direzione al brano. Il fraseggio riecheggia, in modo più irregolare, la melodia introdotta dal sax e dirotta l’andamento su un piano più fermo, in un ambito in cui il ritmo rimane solido ma il timbro delle corde modella un nuovo profilo, forse addirittura più deciso e frenetico, del corso della musica. Da qui si evince il connubio tra la scrittura e la sua interpretazione (la sua narrazione), che si sviluppa in un insieme di riflessi che, in modo circolare, colpiscono gli altri strumenti. L’ultima parte del brano, in cui il contrabbasso passa avanti agli altri, racchiude la chiosa perfetta, confluendo nei tamburi di una batteria sorprendentemente melodica, armoniosa. A cui non resta che reintrodurre il sax della prima parte, per concludere come meglio non si può. 


Daniele Cestellini

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