Jon Boden & The Remnant Kings – Rose in June (Hudson Records, 2019)

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In tempi di “Full English Brexit” (per dirla con Billy Bragg), dall’Inghilterra arrivano ancora dischi di livello altissimo. La nuova fatica del cantante/autore/polistrumentista di Sheffield è anche il quarto capitolo della sua carriera extra-Bellowhead, quinto se consideriamo la maestosa raccolta di ballate “A Folk Song A Day”, resa disponibile sul web e contenente una canzone tradizionale per ogni giorno dell’anno. Ritroviamo i Remnant Kings, band di 11 elementi (proprio come i Bellowhead), dopo il sontuoso “Songs from the Floodplain” di ormai dieci anni fa, ma il sound di questo nuovo album è quanto di più vicino all’universo sonoro della fortunata band fondata da Boden nel lontano 2005 che lo stesso Jon abbia mai prodotto; è vero che mancano melodeon e concertina di John Spiers, ma la grande attenzione al mélange fra archi e fiati lo rende sicuramente attrattivo per chi ha amato quel sound, che era la caratteristica principale dei Bellowhead, prima band folk (dai tempi degli Steeleye Span di “All Around my Hat”) ad avere un disco nella top 40. 
Inoltre, il lavoro è già di suo un prodotto notevole: a materiale già edito e riarrangiato (”Rigs of The Time”, dal primo Bellowhead, a “All Hang Down”, “Going Down to the Wasteland”, “Beating The Bounds” e “We Do What We Can”, qui completamente rivisitati”) si giustappongono un paio di cover sfiziose e inaspettate come “Hounds of Love” (di Kate Bush) e la classicissima “Sweet Thames Flow Softly”, la meravigliosa e lunga ballata scozzese “Rose in June”, già punto di forza delle esibizione (anche in solo) di Boden, il delicato traditional “Seven Bonnie Gypsies”, ascoltato recentemente anche da Eliza Carthy, e tre strumentali, al solito, efficacissimi. Boden si concentra soprattutto sulla chitarra, strumento che, come sa chi ha visto il suo show dal vivo, padroneggia alla perfezione, e lascia il violino a Harriet Davies e ai fidi Paul Sartin e Sam Sweeney (qui anche, e soprattutto, batterista). Detto che nel disco non c’è un solo momento di stanca, le preferenze vanno alle già citate “Beating The Bounds”, alla cover di “Sweet Thames” di Ewan MacColl che suonano tanto (ma tanto) Bellowhead e alla, mi ripeto, meravigliosa ballata che da il titolo all’album e che apre il disco. Notevoli anche il 5/4 e gli archi di “Rigs of The Time” e la bella “We do What We Can” che chiude il lavoro. 



Gianluca Dessì

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