MusicHology: polifonia strumentale e polivocalità tradizionale sarda patrimoni dell’umanità

Tradizione sarda e i Patrimoni dell’Umanità
Bisogna saper andare oltre la forma e i dati oggettivi, è importante ricercare i significati e l’uso funzionale della musica nei diversi contesti. I tempi cambiano, ma non per questo possiamo sentirci autorizzati a distruggere o modificare arbitrariamente quanto ereditato oralmente dai predecessori. Come studiosi abbiamo il compito di ricercare, analizzare, identificare, proteggere e trasmettere alle generazioni future l’immenso patrimonio musicale locale, valorizzando le solide radici, utili anche per una fruizione internazionale dei beni culturali locali (...). Nella contemporaneità è utile dare valore al patrimonio immateriale, com’è quello musicale, poiché permette di far risaltare la diversità culturale anche in anni di imperante mondializzazione. La salvaguardia e la promozione della tradizione dovrebbe migliorare il dialogo interculturale tra i popoli, aiutando a comprendere i modi di vivere nelle diverse comunità. Si tratta di dare spessore alle manifestazioni culturali locali, frutto di conoscenze e competenze trasmesse oralmente nel corso dei secoli, di generazione in generazione. La “Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale immateriale” (“Representative List of the Intangible Cultural Heritage of Humanity”) dell’UNESCO è stata concepita proprio per evidenziare la diversità dei diversi patrimoni intangibili, favorendo la consapevolezza civica della loro importanza in stretta relazione con l’ambiente circostante e la sua storia, “permettendo alle comunità, ai gruppi nonché alle singole persone di elaborare dinamicamente il senso di appartenenza sociale e culturale”.  Rispetto alla polivocalità sarda, l’azione condotta dall’UNESCO è stata finora principalmente rivolta a favore del canto “a tenore”. Tuttavia, per valorizzare al meglio la polifonia sarda, è utile ragionare olisticamente (...). Vi è la necessità di superare la parcellizzazione e la frammentazione musicale.  L’UNESCO, nel 2005, ha progressivamente inserito solo il canto “a tenore” nella “Lista dei Beni del Patrimonio Culturale Immateriale”, ma l’ingente patrimonio musicale polifonico dell’Isola è indissolubilmente legato anche al corpus della polifonia strumentale e della polivocalità religiosa sarda. Come ricercatori, riteniamo determinante valorizzare la memoria musicale delle comunità sarde, la cui ricchezza, nel caso dei canti religiosi sardi, garantisce tratti di unione tra l’Isola e numerosi altri luoghi nei quali storicamente si è affermato il Cristianesimo e non solo.
Come “glocalisti”, pensiamo che il corpus di tali canti sia particolarmente utile nel confronto musicale interculturale e interreligioso, nel rispetto delle specificità riferite alle singole comunità, nelle quali sarebbe importante che i cittadini, dal basso, con aperta coscienza politica (nel senso nobile del termine), si sentissero sempre più uniti nel promuovere la propria identità, agendo coralmente a favore della diffusione della cultura universale. L’identità, lo ricordiamo, è innanzi tutto la coscienza di ciò che noi siamo e di come vogliamo mostrarci al mondo, oggi e in futuro. Non bisogna sentirsi succubi di parcellizzati studi accademici riduzionisti e di posizioni anacronistiche, prese forse un po’ troppo superficialmente da istituzioni cristallizzate. Per valorizzare compiutamente la musica popolare servirebbe una mirata, libera e indipendente formazione locale permanente. Sarebbe opportuna un’azione sinergica che parta dal basso, coordinata e promossa politicamente a livello regionale. Un’azione locale capace di valorizzare i patrimoni musicali dei singoli paesi, rispettando le precipue caratteristiche, per come sono state ereditati, non facendosi imbrigliare dalle regole del mercato discografico e, in generale, da quelle dell’entertainment, vincolate da condizionamenti legati a specifici meccanismi finanziari ed economici. Altresì bisognerebbe riuscire a liberarsi anche dai personalismi e dai loro minuti tornaconti che spesso hanno riscontro con la miopia (talvolta inconsapevole) della politica locale, quasi sempre improntata alla valorizzazione dell’effimero e dell’evento passeggero e giornaliero. Servono coraggio, conoscenze approfondite e il desiderio di volare alto, oltre l’effimero e l’evento mondano. Per una volta, in nome delle culture locali - nei decenni deturpate in vario modo sotto l’impeto dei nazionalismi e del globalismo - sarebbe indispensabile unire le forze regionali, superando i colori politici e le ideologie, per affermare coralmente il valore unitario della musica polifonica sarda, strumentale e vocale, che consta di un repertorio vastissimo, con un numero incredibilmente elevato di varianti esecutive.

Olismo e interdisciplinarietà musicale
Olistico è l’orientamento del nostro percorso di studi interdisciplinari. Ricerchiamo una visione glocale e umana della musica, lontana dalla sola tecnicalità e dallo specialismo, caratteristici dell’epoca contemporanea. Come studiosi ci confrontiamo quotidianamente con una cultura musicale frammentata, che si disperde nei rivoli settoriali delle specializzazioni. Sia ben chiaro. La scuola olistica non rifiuta la specializzazione, ma tende a considerare i fenomeni musicali come parte di un’unità, come processo integrato in un intero organismo. La nostra idea di “music- holos”, di MusicHologia, occupa un esteso campo della ricerca e della riflessione teorica, al quale siamo soliti porre come fondamenta i principi dell’humanitas musicale, tesa a evidenziare in termini comparativi la varietà e la complessità di esperienze portate avanti diacronicamente e sincronicamente, da esecutori e ricercatori secondo ottica internazionale. Nel caso della Sardegna, La polifonia sarda merita di essere valorizzata localmente e organicamente a livello regionale come bene dell’umanità, per essere proiettata con spessore culturale nel mondo ormai prevalentemente globalizzato in ogni settore della produzione umana. Come ricercatori, siamo interessati a far emergere un’idea di musica capace di superare creativamente muri e barriere culturali, a favore di una società aperta, nella quale, sin dalla tenera età, localmente, dovrebbe essere garantita a ogni cittadino l’opportunità di formarsi organicamente secondo criteri glocali, promuovendo la practica musicale e l’ascolto, in relazione alla sfera emotivo-affettiva e a quella storico-culturale. E per far questo serve un cambiamento, servono investimenti e formazione permanente sulle culture locali, facendole valorizzare di preferenza a chi opera nel territorio, non da chi lavora “asetticamente” dentro enti pubblici e centri di studio accademici, il cui feeling con il territorio è quasi sempre passeggero e scarsamente organico. A nostro parere, potrebbero essere maturi i tempi per ripensare il generale impianto teorico che sorregge gli attuali luoghi di formazione musicale istituzionale, sostituendoli o integrandoli localmente con articolati Centri per la promozione e la formazione della Musica, operanti nei diversi contesti regionali e locali. La pluralità formativa, se ben armonizzata, produce diversità e ricchezza culturale.
Durante le nostre ricerche, nei primi anni Ottanta, in Sardegna, abbiamo avuto modo di conoscere (o vedere in azione) un gruppo ristretto di “cantores”, impegnati a difendere il patrimonio musicale della propria comunità, operando principalmente all’interno delle confraternite. Con plauso, c’è gradito menzionare (in ordine sparso) Antonio Nanni, Totoni Loche, Giovanni Pintus, Antonangelo Porcu, Francesco Antonio Salis, Matteo Peru, Angelo Sannai, Martino Corimbi, Giovanni Pinna, Franco Sannai, Salvatore Mula, Giommaria Chessa, Salvatore Tugulu, Tonio Idda, Filippo Casule, Gianni Desogos, Giuseppe Idda, Giuseppe Brozzu, Armando e Michele Pau, Gigi Oliva, Bachisio Masia. Sono i nomi di alcuni “cantores” di spicco (taluni non più tra noi) che, in tempi di “crisi” musicale, con animo leonino, hanno saputo mantenere le tradizioni vocali locali. I Centri cui accennavamo in precedenza dovrebbero essere affidati a persone di questo calibro, cantori encomiabili, ben radicati nei territori, che nel corso dei decenni hanno dimostrato di avere a cuore la cultura musicale del proprio paese nel rispetto di quanto appreso dai loro predecessori, ai quali dobbiamo guardare con ammirazione e stima e grazie ai quali abbiamo ereditato l’inestimabile patrimonio polifonico. A Orosei, è indispensabile ricordare almeno le figure di Giuseppe Farris (Peppe Gollai) e Vissente Gallus per il canto a tenore; Michelli Quartu e Antonio Maria Nanni, per il canto polivocale religioso. 

“Cantores” e la polivocalità di tradizione orale in Sardegna
I canti polivocali liturgici e paraliturgici di tradizione orale in Sardegna appartengono al repertorio religioso cattolico. Secondo un processo dinamico e creativo, contribuiscono all’arricchimento della cultura musicale internazionale, alimentata dal sapere delle singole comunità, che auspichiamo possano diventare sempre più consapevoli promotrici della formazione dei propri cittadini, rispetto a quanto ereditato dai propri predecessori. Come ricercatori, in generale, preferiamo non utilizzare la locuzione “a cuncordu”, poiché è usata in numerosi paesi dell’Isola per denominare il canto polivoco profano, come abbiamo avuto modo di chiarire in diversi scritti, evidenziando in sintesi analogie e corrispondenze. 
I canti religiosi sardi di tradizione orale ci riportano con la mente ai primi anni Ottanta, quando abbiamo condotto in Baronia (pionieristici) studi demo-antropologici, avendo l’onore di essere supportati da Roberto LeydiPietro Sassu, Sandra Mantovani per la parte musicale, Giuseppe Mercurio per quella poetica e linguistica. Gli anni Ottanta sono stati di grande fermento per gli studi etnomusicali, con ricerche coordinate a livello nazionale da Roberto Leydi e nell’Isola portate avanti, sin dagli anni Settanta, da studiosi quali Pietro Sassu, Giovanni Dore, Clemente Caria, Giuseppe Meloni. In precedenza, qualche accenno alla polivocalità religiosa sarda era stato scritto da Giulio Fara, Balilla Pratella, Gavino Gabriel, Diego Carpitella e pochi altri, tra cui Felix Karlinger  il quale, negli anni Cinquanta, aveva ben colto la specificità e la ricchezza del corpus religioso sardo, invitando a riflettere sulle possibili implicazioni e correlazioni musicologiche con il versante colto. In Italia, gli studi sulla polivocalità religiosa popolare devono un forte impulso a Leo Levi il quale, tra il 1954 e il 1962, condusse approfondite e pionieristiche ricerche sulla tradizione orale ebraica e di alcune religioni del Mediterraneo (…). Venendo all’oggi. In numerose comunità sarde, soprattutto durante il triduo pasquale, si è ormai consolidato un tripudio massmediatico, con operatori televisivi locali e spettatori (di ogni età e provenienza) intenti ad armeggiare ovunque cellulari, registratori, telecamere e macchine fotografiche. I “cantores” sono presi d’assalto e, a volte, riescono a muoversi a fatica nei percorsi processionali. I concerti, i convegni e le manifestazioni interculturali non sono più eventi rari. I “cantores” vengono spesso invitati in rassegne musicali internazionali. Spiccata è, ormai, l’attenzione per questo tipo di vocalità da parte di centri di ricerca, accademie e università (nazionali ed estere), dove sempre più attuale è il tema della comparazione e del confronto tra “canti popolari e musica colta”, una separazione che - con le dovute cautele - riteniamo sarebbe utile superare, studiando e analizzando la musica olisticamente e “glocalmente”. Diversi arrangiatori e compositori hanno preso spunto dai canti religiosi tradizionali sardi per rielaborazioni armoniche, per comprendere le quali bisognerebbe addentrarsi nel vasto campo della cosiddetta area dei canti d’ispirazione popolare che, in Sardegna, ha riscontrato ampio successo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.
I canti religiosi tradizionali, poi, hanno acquisito parziale interesse in ambito didattico, sia con lezioni tenute presso alcune scuole dell’obbligo sia in area pratico-esecutiva, con stage dedicati all’apprendimento del canto a più voci (…). Rispetto ai temi brevemente trattati, in conclusione rimarchiamo l’importanza di superare la frammentazione culturale che troppo spesso caratterizza la musica di tradizione orale. Siamo orientati a considerare la polifonia strumentale e vocale sarda un bene unitario dell’umanità che, come tale, dovrebbe essere contestualmente e organicamente valorizzato. Il futuro della polifonia strumentale e vocale sarda dipenderà dalle scelte prese nel presente a livello locale, regionale, nazionale. Sarebbe opportuna una forte presa di coscienza da parte di tutti i soggetti coinvolti in una articolata azione culturale e di promozione delle tradizioni sarde, la quale dovrebbe essere portata avanti con lucidità di pensiero e organicità, avendo cura di far risaltare armonicamente le reali peculiarità musicali delle singole comunità, frutto di un’eredità che abbiamo il compito di promuovere e diffondere con onestà intellettuale e nel rispetto dei nostri predecessori, tenendo conto del cambiamento e delle nuove modalità di fruizione della musica a livello internazionale. Sono scelte che dovranno essere prese con oculatezza, ricercando una condivisione degli obiettivi di base tra tutti gli attori in campo, siano essi cantori, esecutori, studiosi, ricercatori, operatori culturali, politici o cittadini comuni. Impariamo dal passato, viviamo nel presente, progettiamo guardando al futuro. Come ci hanno insegnato con semplicità sor mannos (i nostri predecessori, quasi sempre illitterati), in prospettiva, sarà importante preservare le “radici” e curare amorevolmente la “natura”, affinché copiosi possano essere i raccolti, garantendo alla polifonia strumentale e vocale sarda il rilievo che merita nel mondo, avendo la consapevolezza che sarà sempre più pacificamente condivisa e apprezzata da tutta l’umanità.

La Rassegna oroseina
Dopo la sintesi del nostro contributo,  riteniamo utile lasciare traccia degli eventi che hanno caratterizzato l’incontro culturale (con la partecipazione di un pubblico eterogeneo) svoltosi a Orosei, tra venerdì 4 e domenica 6 ottobre, grazie alla encomiabile organizzazione (durata alcuni mesi) di Martino Corimbi il quale, da circa mezzo secolo, è attivo come cantore e intellettuale della comunità oroseina. Corimbi è figura di spicco del  noto gruppo polivocale tradizionale “Cuncordu de Orosei”.  La rassegna “Il lamento del Mediterraneo” è parte di un progetto concretizzatosi, nel 2016, a Mussomeli, comunità siciliana nella quale sono presenti i “lamentatori”, interpreti vocali delle diverse confraternite. Venerdì 4 ottobre, a seguito della presentazione dei gruppi partecipanti, vi è stata la proiezione di documentari riguardanti la Settimana Santa di Orosei (NU), Mussomeli (CL), Cuglieri (OR) e Pieve di a Serra, in Corsica, con interventi di Renato Morelli, Alessandra Broccolini, Katia Ballacchino, Jean Charles Adami e Martino Corimbi. Nel pomeriggio, Michele Carta, storico locale, ha condotto il percorso culturale riguardante i tre Oratori oroseini (Santa Rughe, su Rosariu, sas Animas). Di sera si è potuto assistere al concerto di “Teatr ZAR” (Polonia) e del “Cuncordu de Orosei”. Alla conferenza di sabato mattina hanno partecipato Martino Corimbi,  Jean Charles Adami (“Il canto sacro nella Pieve di a Serra in Corsica”), Renato Morelli (“Il canto polifonico georgiano primo Patrimonio Immateriale dell’Umanità”), Katia Ballacchino e Alessandra Broccolini (“Il Lamento di Mussomeli”), Andrea Deplano (“Radici Antiche”). Alla sera, il concerto del “Cuncordu di Cuglieri” e dell’ “Arciconfraternita del Santissimo Sacramento” di Mussomeli. Oltre a un laboratorio sulla polivocalità, domenica 6 ottobre, presso i locali dell’ ex “Monte Granatico” vi è stata la proiezione del documentario “Il Lamento del Mediterraneo, Canti antichi per drammi contemporanei”, di Alessandro Aiello e Giuseppe Di Maio, una produzione “MoMu Mondo di Musica” (2017), con presentazione a cura di Biagio Guerrera e Luca Recupero. Il concerto finale ha visto ancora attivi gli esecutori del “Teatro Zar”, i cantori della “Confraternita di a Pieve di a Serra” e quelli di Castelsardo. Si vorrebbe replicare l’anno prossimo in Corsica (Pieve di a Serra) e, nel  2021, in Polonia, a Wrocław, quando verrà eletta “Città Unesco per le arti performative”. Le Rassegne si prefigurano come un prolungato viaggio musicale all’insegna della polivocalità religiosa: “… canti sacri che raccontano l’esistenza di popoli vicini ma diversi, passioni e musiche che si fermano nelle parole tristi di un lamento che racconta le sofferenze, i sacrifici e l’affanno di chi ha lottato per sopravvivere e per conservare la bellezza delle sue tradizioni e della sua storia”. 



Paolo Mercurio
Foto © AEFFE-Antonio Farris

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