Benjamin Gatling, Expressions of Sufi Culture in Tajikistan, University of Winsconsin Press, pp. 233, $69.95

Sufismo e Tajikistan non sono certo tra gli argomenti ricorrenti nella conversazione folkloristica nostrana. Se del primo alcuni han carpito qualche dettaglio dall’ermetismo battiatiano, che spesso echeggiava e celebrava l’estetica Sufi, del secondo poco si parla e sa, dimenticato nel calderone del medio-oriente post-sovietico. La branca mistica dell’Islam, se così possiamo definirla, ha tuttavia una tradizione secolare, la cui ambiguità e discontinuità hanno da sempre suscitato forte interesse nella comunità accademica. La sua connessione con la formazione di un’identità nazionale è forte, sebbene disorientata, nella memoria storica tagica. “Expressions of Sufi Culture in Tajikistan” è un’etnografia di Benjamin Gatling che raccoglie e organizza le testimonianze e le storie collezionate durante il suo fieldwork in Tajikistan. Come spesso accade nel mondo antropologico, l’obiettivo dell’autore non è quello di cercare la verità o dimostrare qualcosa. La non scientificità della disciplina ha portato, negli anni, all’emergere di varie contraddizioni nell’approccio scientifico alla stessa. Quello che riporta Gatling è, dunque, un resoconto, una storia basata su narrazioni personali di chi il sufismo in Tajikistan lo vive. Quello che l’autore nota è una forte perseveranza di un passato Sufi che influenza il presente. Ed è proprio questo presente il soggetto della ricerca, portata avanti analizzando diverse forme espressive tramite cui il passato Sufi si concretizza nelle vite religiose dei discepoli: ricordi, storie, artefatti, rituali e comportamenti incarnati. Le voci narranti sono quelle dei collaboratori locali. Abbiamo Ali e Ibrohim, per i quali il passato è una risorsa comunicativa insuperabile specialmente se confrontata con il sufismo moderno, considerato ‘non vero’. Si passa alle memorie nostalgiche ed un resoconto dettagliato sulle modalità con cui il passato viene riportato da Firuz e Khurshed, per i quali il senso di nostalgia è così forte da diventare imperativo per definirsi musulmani. Il terzo capitolo ha di nuovo come protagonista Firuz i cui racconti mostrano come storie affettive possano creare ponti a metà tra la realtà e la finzione, offrendo una narrativa ideologica alternativa a quella dell’élite governativa. Si passa poi ad un’esperienza condivisa con Shavkat in un santuario, dove il sufismo si materializza nel testo scritto il quale può assumere, talvolta, una sua santità personale. Il libro si conclude con l’attualizzazione del sufismo stesso in rituali religiosi e la sua materializzazione nella vita etica dei discepoli, coltivata partecipando a lezioni collettive. L’autore si destreggia sinuosamente tra i pensieri dei suoi collaboratori, notando le impercettibili connessioni tematiche e metaforiche tra un resoconto e l’altro. Il collante è un background antropologico forte, che emerge sia dalle citazioni storico-politiche che contestualizzano l’opera, che dalle riflessioni antropologiche che echeggiano studi di eminenti autori del settore. Se la ricerca in sé e per sé non è scientifica gode certamente di un certo tipo di scientificità, quantomeno nella disciplina con cui viene condotta. L’autore è, per esempio, perfettamente conscio di molti dei limiti della sua etnografia. Il più lampante è sicuramente il disequilibrio nella rappresentazione dei generi. Essendo l’autore uomo, infatti, gli era precluso ogni contatto con le fedeli ed il loro modo di vivere la sfera religiosa. Anche l’inquadramento storico è estremamente chiaro, dettaglio non da poco considerando quanto la storia dello scorso secolo abbia influenzato l’identità nazionale e culturale tagica. Riecheggiano memorie di un retaggio persiano, che connettono il paese ad adiacenti mondi culturali come l’Uzbekistan o l’Iran. Vi è poi il fantasma sovietico, le cui imposizioni hanno allo stesso tempo insabbiato e rafforzato l’identità nazionale imponendone un’altra aliena. Entrambe le realtà hanno fortemente influenzato il mondo religioso, culturale e politico, generando infine le identità nazionali attuali. Ciò che è costante è la presenza dei Sufi in questa storia intricata. La memoria di questo passato religioso diventa, come mostra Gatling, una forza preponderante nella religiosità contemporanea, definita in rapporto comparativo, e tendenzialmente in difetto, ad essa. Il volume è un resoconto interessante ed uno studio accademicamente valido, perfetto per gli interessati alla cultura Sufi o alle diramazioni islamiche nell’Asia centrale.

Edoardo Marcarini

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