La Macina, Sala Petrassi, Auditorium Parco della Musica, 14 Settembre 2018

“I’ amo il volgo profano. Gli accademici non odio, ma mando lontano da me. Che all’erba novella e all’acque correnti prepongono le seggiole di velluto verde e il picchiar degli applausi. Chiunque altra poesia non conosce che quella de’ libri stampati, chiunque non venera il popolo come poeta e ispirator dei poeti, non ponga costui l’occhio su questa raccolta, che non è fatta per lui”. Questo era il preludio nella prefazione alla raccolta di canti successiva a un autunno di ricerca del Tommaseo, nell’autunno del 1832. Unica immensa pecca il non aver pensato a trascrivere le musiche che accompagnavano le ballate e le ottave a braccio ascoltate allora tra i recessi dei monti toscani. Gastone Pietrucci la sua ricerca sul campo l’ha invece effettuata col corpo tutto, merito anche della voce bella e potente, con la sua creatura di una vita, “La Macina””, riportando all’attenzione della sua stessa gente l’immenso patrimonio di poesia cantata nelle valli delle Marche contadine di allora, fino a laurearsi nei 70 in etnomusicologia proprio con il prezioso materiale raccolto. Non solo. La sua opera di ricerca ha fatto rifiorire i riti della “questua” pasquale e ha permesso alle “filandare” di Jesi di incidere un album di immenso valore. Ben diciotto sono le opere realizzate poi dal gruppo, a partire dagli ’80, con un percorso espansivo verso sonorità e versificazioni contaminate, collaborazioni illuminate, misurate rivisitazioni. 
Senza mai smarrire la bussola. L’archivio sonoro delle marche deve molto a quel lavoro certosino. Tutti meriti sufficienti alla gloria in altri paesi. La coerenza di Pietrucci non paga in questa Italia di voltagabbana e girandole stilistiche, e questo ha sicuramente impedito a “La Macina” di raggiungere maggiore notorietà. Ma tutto resta, e torna, e noi che ce ne deliziamo non possiamo che parlarne. Tutto questo per dire che il concerto all’Auditorium di Roma, presentato dal sagace Gionata Giustini, è stato davvero un evento, la celebrazione di un impegno, di un sogno, di una passione per un mondo contadino che forse non c’è più ma che forse proprio per questo conserva e dilata, attraverso le filastrocche, le ninne nanne, le serenate, le ballate, i canti di lavoro e di festa, il fascino immenso delle cose irrimediabilmente andate perdute. Toccano infatti quelle melodie, quelle nenie, quei racconti, certi recessi sensibili della memoria comune che sembrerebbero inesistenti a priori e sono invece solo sopiti, improvvisamente vivi, potenti, emotivamente scoperti. E questo è davvero merito di pochi. Ove non bastasse il gruppo che annovera maestri dello strumento raffinati e potenti, Taborro, Gigli, Andrenacci e Picchio, erano presenti a dispensare perle quattro splendide signore della canzone, e parlo di Giovanna Marini, Lucilla Galeazzi, Sara Modigliani e Rossana Casale. Mica paglia. 
“La Macina” oggi è un gruppo affiatato con un suono ben definito, che cesella intorno a ogni brano l’indispensabile senza appesantire mai per soliloqui o lungaggini, tutto al servizio della resa live che è efficace, portentosa, emozionante. Tanti i momenti di intensa esposizione, di cura al dettaglio acustico, di parole misurate, a dimostrare una direzione artistica mai smarrita, una limpidezza d’intenti, un sentiero tracciato con cognizione, tante le madeleine con lo splin dentro, e non si può non segnalare la bellissima melodia di “Coraggio ben mio” con una Sara Modigliani in gran spolvero che ha strappato grida d’ammirazione e che si è ripetuta cambiando totalmente registro con la virulenta “Il marito giustiziere”, la dolcissima ninna nanna “Bovi bovi” per la voce di Rossana Casale, la doppia versione di “So’ stato a llavorà a Montesicuro” con una prima parte a cappella della sola e sempre magnifica Lucilla Galeazzi, la suite voce e chitarra di Giovanna Marini dedicata alla mescolanza di Riace che tanto disturba gli attuali governanti. Eric Hobsbawm ha chiamato un pezzo di novecento “secolo breve”, ancora più breve è il periodo che ha seguito quello, con una velocità in mutazione che sta sfaldando certezze e prospettive. Album come quelli de “La Macina” ci aiutano a capire da dove veniamo, e a mantenere il timone per il mondo che dovremo ricostruire dalle macerie di questo.


Alberto Marchetti
Foto e video di Salvatore Esposito

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