Trance, verso un evoluzionismo traslazionale bio-ispirato

Georges Lapassade e Mircea Eliade
Negli anni Ottanta fecero discutere e appassionarono gli studi di Georges Lapassade, il quale osservò come per gli esseri umani fosse vitale accogliere forme di evasione rispetto al vissuto esperienziale abitudinario, per fuoriuscire dalla normalizzazione della coscienza, per ricollegarsi a quanto “culturalmente rimosso” ma che appartiene a una ben definita eredità storica e biologica. La “trance” (o “transe”), scriveva lo studioso francese (1980), “è un modo di essere nel corpo … non un fenomeno marginale sopravvissuto in qualche società del terzo mondo”. Nelle sue riflessioni, invitava ogni essere vivente a prendere coscienza della propria storia e ad analizzare le proprie istituzioni, in modo da permettergli di individuare in maniera critica quella che definiva l’“atomizzazione burocratica della quale è vittima”. A partire dagli anni Ottanta, gli studi etnografici e sociologici di Lapassade ebbero largo seguito. 
Riteniamo indicativo il suo percorso di ricerca maturato in ambito accademico, i cui risultati più significativi, però, sono stati raggiunti a seguito di specifiche ricerche sul campo, a contatto con diverse comunità, indagando sulla possessione e sugli stati alterati della coscienza, riferibili soprattutto ai rituali estatici tunisini, alla macumba brasiliana, ai tarantati pugliesi, al culto nelle confraternite Gnawa magrebine. I fenomeni connaturati alla “trance”, se osservati in campo internazionale e diacronicamente, richiedono di essere analizzati secondo ottica transculturale e comparativa. Egli studiò le performance rituali anche da un punto espressivo, nelle quali il corpo diviene mezzo di sofferenza, capace di evidenziare il conflitto tra gli individui e le istituzioni della propria società, ponendo in risalto la valenza del linguaggio simbolico, esplicantesi in forme di drammatizzazione che permettono di dare sfogo al disagio degli individui, assumendo di riflesso anche valenza terapeutica. Alcuni decenni prima, Mircea Eliade aveva apportato uno straordinario contributo di ricerca rispetto allo “sciamanesimo e alle arcaiche tecniche dell’estasi” (1951), studiando in modo esemplare il fenomeno, in diretto collegamento con la storia delle religioni, la cosmologia, la medicina, il simbolismo, le azioni iniziatiche, i sogni, la musica, tenendo conto dei diversi contesti storico-sociali e antropologici. Egli fu studioso eclettico e permise a molti giovani del tempo di avvicinarsi alle conoscenze delle culture asiatiche e delle tecniche spirituali quali quelle dello yoga indiano (1948). In virtù della vastità e della profondità dei temi trattati, i suoi studi continuano ancora oggi ad avere ampio riscontro anche perché fu un ricercatore che considerava fondamentale approfondire la conoscenza immergendosi nella “practica” rituale, condizione che gli permise di ricavarsi uno spazio pure come prolifico divulgatore di tecniche spirituali, sacrali, alchemiche, cabalistiche, animiste, geomantiche e yogiche.  

Trance: music and dance 
Proprio gli studi di Mircea Eliade ci permettono di evidenziare (seppur di passaggio) come l’uso della “trance” e, in generale, degli stati alterati della coscienza trovi riscontri pratici nella contemporaneità, all’interno di multiformi fenomeni espressivi genericamente etichettati come “trance music” e “trance dance”, la cui analisi richiederebbe di ripercorrere storicamente e senza pregiudizi gli ultimi cinquant’anni di storia musicale e coreutica, osservando come alcuni elementi formali ed espressivi tipici della “trance” possano avere influenzato compositori, musicisti e gruppi musicali di varia estrazione (alcuni dei quali appartenenti all’eterogeneo movimento denominato “new age”). 
Dagli anni Sessanta, vi è stato un proliferare di tecniche pseudo sciamaniche, rielaborate musicalmente e coreuticamente in versione moderna e adattate, soprattutto in occidente, alle esigenze della contemporaneità, rifacendosi più o meno direttamente a più arcaiche pratiche della “trance”. Nel mondo agiscono diversi operatori che impiegano ancestrali principi “terapeutici” tendenti al riequilibrio dell’anima e dello spirito, utilizzando tecniche sonore sciamaniche che solitamente richiedono l’impiego di strumenti a percussione di vario tipo, quali tamburi, gong, piatti, chimes. Tali strumenti, peraltro, sono ampiamente utilizzati anche in ambito musicoterapico in cui convergono, a vario titolo, questioni concernenti tematiche afferenti medicina, pedagogia, psichiatria, fisica, antropologia, sociologia.  La danza in stato di “trance” è verosimilmente uno dei modi primordiali per entrare in contatto con la natura. Nella cosiddetta “trance dance”, in chiave moderna, vengono per lo più ripresi arcaici rituali, decontestualizzati e depurati rispetto alle originarie pratiche spirituali e religiose etnicamente connotate. Per l’accompagnamento, secondo necessità, di solito vengono utilizzati ritmi e musiche caratterizzati da melodie con suoni e timbri atavici ed esotici, suoni d’ambiente, canti tribali o suoni/rumori eseguiti da strumenti come didjeeridoo, tamburo, maracas, chimes e, secondo necessità, altri strumenti etnici prevalentemente utilizzati per indurre rilassamento, condizione necessaria per ricercare un adeguato stato di “trance”.  Ai fini di un maggior benessere, riequilibrio psico-fisico, aumento dell’energia vitale e di una trasformazione interiore tesa al riconoscimento della propria natura spirituale, il danzatore viene invitato a liberare la mente e a ricercare un viaggio interiore che gli permetta di ritrovare “contatto” con il proprio corpo, grazie anche all’utilizzo di specifiche tecniche di respirazione. La danza diviene veicolo per sperimentare sensazioni corporee ed extra corporee, tali da trasportare il danzatore nel flusso eterno della vita, percependone ontologicamente la sacralità e raggiungendo l’essenza dell’anima. 
Si tratta solo di parole e di suggestioni senza fondamento scientifico? I fenomeni riferibili alla “trance” sono stati e lo sono tuttora oggetto di studio in campo psicologico e medico-psichiatrico, la cui letteratura internazionale è principalmente centrata sugli “Altered States of Consciousness” (ASC) e sul dibattitto intorno a specifiche tematiche riferibili agli ambiti neurofisologici, psicoantropologici ed etnopsichiatrici. In tali ambiti si ricerca una sintesi tra gli studi medici e quelli umanistici che, nel corso degli anni, hanno portato i ricercatori a formulare diverse ipotesi anche riguardo a precisi stati patologici, quali quelli tipici delle nevrosi e delle psicosi, ma anche a elaborare modelli operativi terapeutici integrati come, ad esempio, riscontrabile in lavori condotti da Tobie Nathan (in Francia), Thomas Adeoye Lambo (in Nigeria), Piero Coppo (nel Mali), Henry Collomb (nel Senegal). È stato rilevato che i fenomeni della “trance” presentano caratteri di universalità (Bourguignon, 1986), ma risultano sfaccettati in manifestazioni che si differenziano secondo la cultura di riferimento. La “trance” è uno stato di coscienza alterato passeggero, un’esperienza di rottura della coscienza umana ottenibile in forme differenti (quali quelle tipiche dell’estasi - da “ἔκστασις”, uscire fuori -, della possessione e della “proiezione”). Intorno a quanto raggiungibile tramite la “trance” da mistici, sciamani e posseduti è possibile stabilire un ampio dibattito intorno a componenti di natura psicologica e culturale, cogliendone tutte le necessarie differenziazioni e sfumature anche in termini di sintomi medici, quali mutamenti neurofisiologici, alterazioni percettive, disturbi di vario tipo (tremori, brividi, dolori, svenimenti, letargia, convulsioni, ipo e ipertermia ecc.).

Gilbert Rouget, Musica e trance
Nel contesto generale dello scritto, è per noi oggi importante ricordare il contributo fornito alla ricerca etnomusicologica da Gilbert Rouget nell’opera “Musica e trance. 
I rapporti tra la musica e i fenomeni di possessione” (1986), di recente pubblicata in Italia in una nuova edizione (Einaudi, 2019), preceduta dall’“Introduzione” di Francesco Giannattasio (ricca di spunti di riflessione) e dalla colta “Prefazione” di Michel Leiris. Allievo e assistente di André Schaeffner, l’autore è deceduto nel 2017 all’età di centouno anni. Nel campo degli studi etnologici, si è distinto per tutta la seconda metà del Novecento, prima come studioso delle culture africane e, in seguito, come direttore del “Département d’Ethnnomusicologie” di Parigi e come docente della stessa disciplina presso l’Università di Paris X -Nanterre. Comprendendo la vastità delle implicazioni interdisciplinari e della mole dei dati da dover elaborare nei fenomeni correlati alla “trance” (“… i fatti sono talmente vari e complessi che sfuggono a qualunque spiegazione univoca”), Rouget ha voluto chiarire al lettore gli obiettivi generali della sua ricerca, inizialmente maturata studiando i culti di possessione praticati nel Benin (Dahomey), “paese di origine del vodu haitiano e di gran parte dei culti afrocubani e afrobrasiliani”. Nel corso dei decenni, ha esteso la ricerca a diverse altre aree del mondo, escludendo la Cina, il Giappone, la Polinesia e la Melanesia. Consapevole della vastità degli argomenti da trattare, Rouget elaborò il testo con lucida visione d’insieme, avendo soprattutto chiari alcuni obiettivi specifici degli studi etnologici ed etnomusicologici. A distanza di più di trent’anni dalla sua prima pubblicazione, l’opera continua a essere un caposaldo della letteratura etnomusicale europea, ricca di dati oggettivi e di puntuali analisi dei riti, evidenzianti la vastità e la profondità degli interessi coltivati dall’autore. Dopo la prima pubblicazione, il testo venne aggiornato negli anni Novanta, in un’edizione ampliata, rivedendo soprattutto il capitolo dedicato a “Musica e trance presso i Greci”, nel quale mise a confronto testi e idee riferibili soprattutto a Fedro, Platone, Strabone e Aristotele. La Grecia è stata culla della cultura classica e occidentale, ma l’autore era consapevole di come la “trance” fosse ben conosciuta e praticata in tradizioni ben più antiche. Indispensabili i chiarimenti tesi a evidenziare alcune peculiarità che contraddistinguono la “trance” di possessione dall’estasi (spesso confuse e sovrapposte). La prima caratterizzata da “movimento, rumore, sovrastimolazione sensoriale, amnesia e assenza di allucinazioni”, la seconda da “immobilità, silenzio, solitudine, privazione sensoriale, ricordi, allucinazioni”. La musica è intrinsecamente legata alla cultura e all’etnia di appartenenza, è connessa a specifiche consuetudini sonore e organologiche, può variare notevolmente secondo le funzioni che svolge all’interno dei riti presi in considerazione, in cui gli obiettivi generali e gli aspetti formali sono decisivi per comprendere le differenti azioni musicali.  
Alcuni semplici esempi potranno aiutare a comprendere l’esteso range entro cui la musica può essere utilizzata in relazione ai diversi riti.  La “trance condotta” dello sciamano richiede di intraprendere un/il “viaggio”, indispensabile prima di entrare in relazione con luoghi abitati da morti e da spiriti. La sua azione musicale è diretta, come cantante, strumentista e danzatore. Nel caso di mistica “indotta”, invece, l’individuo o più individui vengono posseduti (“trance identificatoria”) e la musica viene eseguita da terzi che hanno il compito di cadenzare e scandire i momenti rituali. In alcuni riti le musiche di possessione sono vocali, mentre in altri sono strumentali. Nei riti viene evidenziato come sia indispensabile analizzare le specifiche sonorità, riguardo alle modalità esecutive, di volta in volta, tenendo presenti i parametri di tempo, intensità sonora, varietà ritmica e iteratività melodica, cui corrispondono mutamenti psicologici ed emotivi, riferibili a modificazioni nei livelli della coscienza. Nelle conclusioni, Rouget mette in guardia il lettore dal considerare la musica come mezzo unico e privilegiato per scatenare la “trance”. Pur considerando le differenti modalità esecutive e la variabilità dei rapporti tra musica e “trance”, l’autore invita a considerarla come una delle parti essenziali dei diversi riti, da osservare nella loro globalità e complessità. Quelli riportati sono naturalmente solo brevi accenni. Per dirla con Michel Leiris “… è impossibile riassumere in poche righe tutte le sfumature delle conclusioni esposte con estrema prudenza da Gilbert Rouget …”, da parte nostra vi è, però, l’invito a una lettura attenta e critica del testo, avvincente e ben godibile anche da un pubblico non preparato musicalmente. Il libro si presta a differenti livelli di lettura ed è stato scritto con stile. I contenuti offrono continue riflessioni sul presente e sul passato, in relazione all’evoluzione e all’organizzazione sociale delle diverse comunità.

Dai primitivi agli umanoidi con alterata coscienza
Ricollegandoci all’incipit del contributo, è nostra opinione che il fenomeno della “trance” e, in generale, degli stati alterati della coscienza, negli anni a venire, acquisterà rinnovati orizzonti di analisi, alla ricerca di concrete risposte rispetto alla complessità biochimica, biofisica e biopsichica del corpo umano e all’esigenza degli individui di “trans ire”, di immaginarsi diversi da quello che si è nella vita di tutti i giorni, di andare oltre, verso quella libera e misteriosa unità ontologica primordiale che è insita in ognuno di noi e che ripropone l’eterna dicotomia tra identità e alterità. Tali rinnovati orizzonti di analisi faranno tesoro di quanto sino a oggi prodotto ed elaborato sull’argomento da numerosi studiosi. Nella continua ricerca delle radici dell’uomo, guardando al domani, un importante contributo verrà dato dalla biologia e dalle neuro scienze impegnate, a vario titolo, nella scoperta di adeguati modelli di attività neuronale che regolano la coscienza e il suo contenuto, possibile chiave di lettura per comprendere il nostro passato ancestrale. A fianco d’indagazioni specialistiche, rispetto a temi così complessi e profondi sarà indispensabile affiancare progetti di ricerca integrata che prevedano un rigoroso approccio olistico, interdisciplinare e glocale (sicuramente transculturale) a favore dell’umanità, pur in un’ottica (che ormai sembra segnata e inarrestabile) di un evoluzionismo traslazionale, in cui si cercherà di trasferire i livelli di conoscenza e coscienza umana alla tecnologia e ai robot (nel tempo, dotati di personale coscienza), che caratterizzeranno un’era digitale che ci auguriamo sarà “bio-ispirata”, concepita cioè in funzione di un’armonica evoluzione dell’umanità in sintonia con i ritmi della natura.  

Paolo Mercurio

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