Blu L’Azard – Bal Poètic (Ala Bianca, 2018)

Nato nel 2013 con l’intento di valorizzare e riscoprire le lingue minoritarie del Piemonte, il progetto Blu L’Azard vede protagonisti Peyre Anghilante (voce e fisarmonica), Flavio Giacchero (voce, clarinetto basso, sax soprano, cornamuse),  Marzia Rey (voce, violino) e Pierluigi Ubaudi (voce, flicorno baritono, oggetti sonori), quattro strumentisti provenienti dalle valli alpine occidentali, accomunati dal desiderio di dare vita ad un percorso di ricerca che spaziasse dalle musiche da ballo al canto polivocale. Partendo da uno studio rigoroso dei materiali tradizionali, il gruppo ha indirizzato il proprio lavoro verso l’esplorazione di nuovi linguaggi sonori, cristallizzando una cifra stilistica originale che supera gli stilemi standardizzati del genere per approdare ad un concetto trasversale di tradizione in movimento. In questo senso, la riscoperta delle tante variazioni sonore che possono nasce dall’esecuzione dal vivo di un brano ha rappresentato l’elemento guida della loro indagine sonora che si muove in parallelo tra sperimentazione e valorizzazione dell’improvvisazione. Nel corso degli anni, il gruppo ha messo in fila numerose collaborazioni con varie realtà: ricercatori, associazioni, enti pubblici, artisti. In particolare con l’associazione culturale Chambra d’Òc partecipa alla realizzazione di progetti finanziati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi della legge 482/99 “norme a tutela delle minoranze linguistiche storiche”, coordinati dalla Regione Piemonte e promossi dalla Città Metropolitana di Torino. In questo contesto di grande importanza è l’attività didatti con stage e laboratori di musica e danza popolare. 
Dopo aver debuttato nel 2014 con “Enfestar” che brillava per le interessanti intuizioni a livello creativo e per l’intreccio linguistico tra occitano, francese e francoprovenzale, li ritroviamo con “Bal Poètic”, concept album che ci svela sorprendenti connessioni musiche da ballo e poesia. Abbiamo intervistato Flavio Giacchero (voce, clarinetto basso, sax soprano e cornamusa) per ripercorrere insieme a lui il cammino del gruppo per soffermarci, poi, sul loro nuovo lavoro e l’importanza della dimensione live.

Partiamo da lontano come nasce il progetto Blu L'Azard?
Blu L'azard nasce nel 2013 come progetto artistico-musicale finalizzato inizialmente alla questione e divulgazione delle lingue minoritarie del Piemonte, di cui facciamo parte, sotto lo stimolo dell'Associazione Culturale cuneese Chambra d'Òc che da molto tempo si occupa di questo.

Ci puoi parlare brevemente del background musicale di ognuno dei componenti del gruppo?
Proveniamo tutti e quattro da vallate alpine dove la tradizione musicale, coreutica e canora è ancora molto viva e abbiamo un legame con essa sia partecipativo sia per un continuum storico famigliare. Oltre a conoscere la tradizione della musica orale siamo tutti “alfabetizzati” musicalmente con percorsi formativi di studio anche se differenti: più classico, Peyre e Marzia; più popolare e bandistico, Gigi; jazzistico, ma con altrettante origini popolari e bandistiche, per quanto mi riguarda.

Quali sono stati e sono i riferimenti musicali di Blu L'Azard?
Siamo persone curiose con molti interessi e ascolti. Non abbiamo quindi un riferimento preciso a autori o generi ma, per quanto difficile il concetto di “genere musicale”, posso dire che sono un riferimento la musica popolare del mondo, le sonorità della world music, il neo folk contemporaneo, il jazz e il free jazz, la musica improvvisativa, la musica contemporanea e classica, la musica di tradizione orale delle nostre regioni.

Come si è evoluto il vostro approccio alla musica tradizionale dell'arco alpino piemontese dal vostro esordio ad oggi?
Conosciamo e viviamo questa tradizione musicale dalla quale tutti e quattro siamo partiti e sulla quale progressivamente abbiamo innestato una nostra libera creatività anche con l'intenzione di sciogliere una certa codificazione che si è fissata negli anni soprattutto per quanto riguarda il folk revival.

Arriviamo a “Bal Poètic”, il vostro secondo album. Già nel titolo è racchiuso un po’ il concept alla base del vostro lavoro, quello di coniugare le musiche da ballo con la poesia. Una scommessa non da poco…
Come il precedente, anche questo disco è nato nell’ambito dei progetti per la diffusione e tutela delle lingue minoritarie messi in campo dall’Associazione Chambra d'Òc. La poesia ha sempre un proprio ritmo, un proprio tempo. La musica strumentale di tradizione orale è legata alla danza, che è ritmo. Poesia e danza sono mezzi espressivi finalizzati alla comunicazione e per farlo utilizzano un “tempo” che non è quello ordinario. A noi interessa comunicare quel tempo perché veicola messaggi. Un ballo poetico è un ballo, un concerto in cui si comunica un pensiero. Mi viene in mente, con tutte le differenze del caso, “Ci ragiono e canto” di Dario Fo.

Quali sono le identità e le differenze tra il vostro primo disco e "Bal Poètic"?
Nel primo disco, “Enfestar”, citavamo l'etnomusicologo Brailoiu con un suo noto scritto in cui  sosteneva quanto siano determinanti nella musica popolare di tradizione orale l'improvvisazione, la creatività, l'interpretazione durante ogni esecuzione, che la rendono unica, naturalmente rispettando canoni precisi. Questo, contestualizzato nella nostra contemporaneità, è sicuramente la cifra che lega i due lavori e la nostra estetica. Sono due progetti nati su temi precisi in cui nel primo la maggior parte dei brani sono tradizionali mentre nel secondo di nostra composizione. Accomuna inoltre i lavori l'utilizzo delle lingue minoritarie per i testi e, nella musica, tempi di danze tradizionali.

Nel disco si spazia attraverso sonorità, influenze e linguaggi differenti. Ci puoi tracciare il percorso del disco?
Il disco è stato pensato come una narrazione, che segue dunque un percorso e vari intrecci in cui si attraversano luoghi, atmosfere, colori, stati d'animo differenti ma tra loro connessi. Apre e chiude il disco una declinazione del concetto di bellezza e si prosegue, idealmente, come sfogliando un libro o attraversando spazi durante un viaggio.

Come si è indirizzato il lavoro di ricerca e composizione dei brani?
Più che altro con libere proposte da parte di tutti e molto lavoro di gruppo nel dare forma. In questo processo creativo non sono escluse accese discussioni e grandi mangiate.

Gli arrangiamenti si muovono dalla tradizione al jazz fino a toccare l'avanguardia e la musica contemporanea. Quali sono state le difficoltà nella creazione delle strutture musicali?
In realtà non ci sono state molte difficoltà perché “il gioco” era proprio dare libertà alla creatività di ognuno e condivisa, senza porsi troppi limiti se non quello di rispettare dei tempi musicali precisi.

Oltre alle strutture musicali, particolare attenzione è stata riposta anche nelle voci con il brano conclusivo "La Bluessi" che è a cappella. Quanto è importante per voi la ricerca sulla vocalità?
Fondamentale. Proveniamo da una tradizione in cui il canto a più voci è ancora molto vitale e lo pratichiamo abitualmente in situazioni spontanee. Si è trattato quindi di utilizzare quell'estetica e la nostra creatività, considerando “suono” tanto la vocalità quanto gli strumenti musicali. Il brano conclusivo è anche un tributo a quella tradizione.

Venendo ai brani. Il disco si apre con "Se si insegnasse la bellezza" attribuita a Peppino Impastato. È una dichiarazione di intenti e nel contempo uno po' il vostro manifesto...
Assolutamente sì. Il discorso sarebbe esteso... per noi l'espressione artistica è comunicazione e quindi concerne la vita sociale. Non possiamo ignorare la nostra contemporaneità.

In "Pavòts" il valzer incontra le liriche del poeta armeno Daniel Varujan. Come nasce questo brano?
Nasce da una proposta di Peyre che ha lavorato sul poeta in quanto ha tradotto molte sue liriche in lingua occitana. Oltre che musicista è traduttore. Citare Varujan per noi è sia denunciare un vero e proprio genocidio sia ricordare che in quel genocidio si sono sperimentate per la prima volta tecniche di omicidi di massa che apriranno le porte ai campi di sterminio tedeschi della seconda guerra. Ma è anche per la straordinaria risposta del poeta alla tragedia.

Tra gli episodi più intriganti del disco merita una citazione "La Gardia" dedicata a Guardia Piemontese, enclave occitana in Calabria...
E' una dedica a una comunità che abbiamo conosciuto bene. Non tutti sanno che questa gente, di origini valdesi, ha subito una sanguinaria crociata nel XVI secolo per opera del cardinale Ghislieri, divenuto poi papa Pio V, e che parlava la stessa lingua degli albigesi, vittime a loro volta della terribile crociata di papa Innocenzo III, nel XIII secolo, per estirpare il catarismo. La stessa lingua e cultura del mondo poetico trovadorico. Di nuovo, denuncia contro la violenza del potere.

Ad un certo punto del disco incontriamo anche Trilussa in "Sogni/Ninna Nanna de la guerra". Ci racconti la genesi di questo brano?
Nasce come tributo a un anniversario, cent'anni dalla fine della Prima Guerra mondiale: un'immane tragedia, un macello. Il disco infatti esce nel 2018. Trilussa scrive questa poesia nel 1914 e per molti versi è ancora contemporanea, nella drammaticità, lucidità e denuncia. Inoltre, il gruppo è impegnato anche nello spettacolo “Sento il rombo del cannone” sui canti della Prima Guerra e che stiamo proponendo in occasione delle presentazioni del recente volume “Al rombo del cannon” di Franco Castelli, Emilio Jona e Alberto Lovatto.

In "Arbres-Marsian" addirittura la mazurca incrocia Rimbaud. Un incontro ardito ma quanto mai riuscito.
Un frammento tratto da una poesia sensuale di Rimbaud che racconta di un incontro al quale segue un nostro testo che parla ancora di incontri ma anche di alterità, di difficoltà nell'incontrarsi veramente, di paura, di diffidenza. Sono stimoli a una riflessione nella quale la musica propone un ambiente, un luogo da cui partire. Rimbaud, perché ci piace.

Il disco regala momenti strumentali gustosissimi come "La suite di corrente tradizionali delle Valli di Lanzo" o "Corrente de Costeoles". Quanto è importante la dimensione coreutica dei Blu L'azard?
E' molto importante per noi. Siamo cresciuti in un contesto in cui la danza è connessa ancora ai riti e non è revival. Il mondo del revival, per quanto interessante, tende a codificare e, quasi paradossalmente, togliere una certa libertà innata nella tradizione. Per questo esploriamo anche nuove vie ma amiamo la vitalità che trasmette la dimensione coreutica tradizionale alla quale abbiamo dedicato appunto questi due brani.

Concludendo quanto è importante la dimensione live per i Blu L'azard?
Fondamentale. Anche in questo caso si tratta di comunicazione, con il pubblico, con noi stessi. Diamo molta importanza all'improvvisazione, per quanto su strutture stabilite. L'improvvisazione intesa come forma, come modo di essere e sentire in quel momento. Non si tratta di episodi solistici e virtuosistici ma di condurre un percorso insieme. Entrambi i dischi infatti sono stati registrati in presa diretta.




Blu L’Azard – Bal Poètic (Ala Bianca, 2018)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

“A l’alba dal jorn/la fuelha dins lo tomple/lo sòn de l’azard” (All’alba del giorno/la foglia nella pozza/il suono del caso”. Sono questi brevi ed evocativi versi che fanno da preludio all’ascolto di “Bal Poètic”, nuovo album dei Blu L’Azard nel quale hanno raccolto quindici brani che, nel loro insieme, ci svelano le connessioni possibili tra la musica da ballo e la poesia. Si tratta di un lavoro di grande spessore artistico in cui si susseguono composizioni ora ispirate a poeti e intellettuali di epoche e culture solo in apparenza lontane, ora legate ad eventi storici, ora ancora di testi poetici tradotti e messi in musica. Dal punto di vista prettamente musicale a colpire è la particolare cura che è stata riposta tanto nella composizione dei brani quanto negli arrangiamenti in cui sperimentazione ed improvvisazione giocano un ruolo centrale. Laddove in apparenza, il disco ha i tratti dell’omaggio alla poesia e alle lingue minoritarie delle Valli Piemontesi, andando più a fondo si scopre lo stretto legame con suoni, ritmi e danze tradizionali su cui si innesta una ricerca sonora a tutto campo. Aperto dalla programmatica “Se si insegnasse la bellezza” ispirato ad un testo attribuito a Peppino Impastato, l’album ci regala subito uno dei suoi momenti più brillanti con “Mac Mes” una bourrèe a due tempi il cui testo in francoprovenzale è ispirato ad una poesia del poeta russo Evgenij Aleksandrovič Evtušenko. Si prosegue, prima, con il valzer “Pavòts” con le liriche tratte da “Canto del Pane” del poeta armeno Daniel Varujan e tradotte in occitano e, poi, con il rondeu “La gàrdia” firmata da Flavio Giacchero in cui è raccontata la storia di Guardia Piemontese. Se la bourrèe a tre tempi “Aracnica” mescola un racconto di Paul Pellison- Fontanier e una poesia di Emily Dickinson, la successiva “Arbres/Marsian” ci conduce tra le pagine di Arthur Rimbaud. La superba suite “Corrente delle valli di Lazo”, in cui ascoltiamo in successione due estratti dal repertorio di musica a corde di Balme e un frammento da quello di Celèst, ci introduce alla bella sequenza con “Sogni/Ninna nanna de la guerra” in cui spicca il testo di Trilussa, lo scottish “Insono/Libera din Pieva” ispirata a William Butler Yeats e il rondeau “Vota Perou Vota Paou”. La polca “Estat ai gran sazo” con le liriche del trovatore del XII secolo Peire Vidal ci accompagna verso il finale in cui scopriamo i testi alchemici di Caterina Sforza in “Miristica/Experimenta” e ci abbandoniamo al ballo con “Corenta de Costeòles e balet” e il chapelloise “Bella t’è bella”. Lo splendido canto polivocale “La Bleussi” suggella un disco da ascoltare con attenzione per coglierne ogni sfumatura poetica e musicale.


Salvatore Esposito

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