Bob Dylan, Auditorium Parco della Musica, Roma, 3 Aprile 2018

Sono le ventuno precise quando si spengono le luci nella splendida sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica. Sul palco ancora al buio, prendono posto i musicisti. Le prime note cominciano a diffondersi. Poi un applauso scrociante accoglie Bob Dylan. Era dal 2015 che il suo Never Ending Tour non approdava in Italia, e in questi quasi tre anni di cose ne sono successe tante, a partire dalla trilogia di dischi dedicata al Great American Songbook, passando per il Premio Nobel per giungere all’ultimo e straordinario volume della Bootleg Series dedicato ai Gospel Years. Bob Dylan prende posto al pianoforte, mentre gli ultimi spettatori stanno prendendo posto e poco dopo si immerge a capo fitto in una serrata versione di Things Have Changed, brano tratto dalla colonna sonora del film “Wonder Boys” di Curtis Hanson che nel 2001 gli valse l’Oscar come miglior canzone. Il nuovo arrangiamento presenta una trama ritmica diversa dall’originale che imprime al brano fascino del tutto nuovo, esaltato dall’ottimo lavoro chitarristico di Stu Kimball e Charlie Sexton. Si prosegue prima con una bella versione semi-acustica di “Don’t Think Twice It’s All Right” direttamente da quel capolavoro che era “Freewheelin’ Bob Dylan” e poi con una travolgente “Highway 61” con le chitarre ancora sugli scudi, spinte alla perfezione dal basso del capobanda Tony Garnier e dalla batteria di George Receli. 
La voce di Bob Dylan sembra aver ritrovato quello smalto che negli ultimi anni si era andato perdendo, e questo lo si nota soprattutto quando dal cilindro di “Blood On The Tracks” pesca “Simple Twist Of Fate” il cui arrangiamento esalta la potenza evocativa del testo. Tra un brano, i sette grandi riflettori e le sei luci che illuminano il palco si spengono per riaccendersi solo dopo le prime battute del successivo, in un alternarsi di ombra e luce, caos ed ordine con gli strumenti che si dibattono tra suoni dissonanti per poi entrare improvvisamente nella melodia dei brani. Così accade anche prima del preludio strumentale “old time” che introduce a quel gioiello che è “Duquesne Whistle” da “Tempest”, l’ultimo album di inediti datato 2012, e l’effetto è ancor più accattivante. Bob Dylan conquista poi il centro del palco, prende in mano l’asta del microfono ed arriva il primo spaccato dedicato al songbook di Frank Sinatra con una dolcissima “Melancholy Mood”. Il cantato si fa ancor più intenso e l’impressione è che lo stesso Dylan preferirebbe proseguire il concerto su questa linea, ma nel gioco di rimandi tra presente e passato si fa largo il blues di “Honest With Me” da “Love & Theft” del 2001 a cui segue una superba quanto irriconoscibile “Tryin' to Get Heaven” da quel capolavoro che era “Time Out Of Mind” del 1997. La soffice melodia di “Once Upon a Time” dal repertorio di Tony Bennett ci riporta sui sentieri del Great American Songbook ma è già tempo di “Pay In Blood” ancora
da “Tempest” in una resa tagliente ed incredibilmente efficace dal punto di vista dell’arrangiamento. Un capitolo a parte lo merita la riscrittura completa di “Tangled Up In Blue”, esempio tra i più alti del continuo work in progress che Bob Dylan applica sui suoi brani, e che nella nuova versione appare completamente destrutturata nella melodia, così come nel testo. La scenografia che fa da sfondo al palcoscenico, cambia ancora una volta e in sequenza arrivano altri due brani dalla prepotente trama blues “Soon After Midnight” e “Early Roman Kings” che ci schiudono le porte ad una straordinaria versione di “Desolation Row” con Donnie Herron al mandolino elettrico, seguita da una “Love Sick” con un Dylan mai così ispirato nello scandire ogni verso. La trascinante melodia di “Thunder on the Mountain” da Modern Times e quel gioiellino che è “Autumn Leaves” di Yves Montand ci conducono verso il finale con una “Long and Wasted Years” chiusa da un prepotente assolo di batteria di George Receli. Dopo una brevissima pausa, arrivano i bis finali di rito con il superclassico “Blowin’ In The Wind” e una brillante versione di “Ballad Of Thin Man”, seguite dal pubblico delle prime file assiepato in piedi sotto al palco. Al termine, un velocissimo inchino insieme alla band e un bacio al pubblico chiudono una serata da incorniciare con un Bob Dylan forse poco comunicativo (ma a memoria d’uomo si contano sulla punta delle dita i concerti in cui lo è stato) ma certamente in grande forma. Prossimo ai settantasette anni, sembra volerci dire che ancora assolutamente alive & kickin’ con buona pace di chi lo dava ormai prossimo a godersi una dorata vecchiaia. 

Salvatore Esposito

Posta un commento

Nuova Vecchia