Beppe Gambetta – Short Stories (Borealis Record, 2017)

Foto di Michael Schlueter
Incontriamo Beppe Gambetta in albergo, il giorno dopo il concerto al Folk Club di Torino di cui abbiamo già scritto. Si dimostra subito un piacevole interlocutore, molto disponibile e garbato, con una notevole voglia di raccontare e di raccontarsi, di spiegare minuziosamente il perché delle proprie scelte artistiche, aprendo così anche una interessante finestra sul proprio processo compositivo. Non mancano considerazioni sparse sulla musica e la vita dell’artista. Ne è scaturito un lungo ma piacevole dialogo, un “Ritratto dell’artista da … adulto”, sicuramente impegnativo, ma pieno di spunti ed approfondimenti, quasi una finestra sullo stato dell’arte della musica folk, e per chitarra, oggi. Ci accoglie con le sue immancabili scarpe rosse …

Cominciamo con una nota di “colore”: le tue immancabili scarpe rosse. Un portafortuna, una scaramanzia, o che altro?
Le scarpe rosse derivano dal mio essere genovese e dal voler risparmiare [sorride], o forse dall’essere musicista e quindi voler ridurre al minimo qualsiasi tipo di spesa. Tantissimi anni fa, probabilmente 25 anni fa, sono passato da questo negozio di saldi genovese, aveva cinque paia di scarpe rosse, bellissime Superga del mio numero, credo fosse ottomila lire l’una. Era un prezzo fantastico a quei tempi. Ho detto: “forse vale la pena di introdurre una nuova moda”. Avevo già fatto i conti che i blue jeans neri erano quelli che si lavavano meglio durante il viaggio (perché alla fine le scelte sono molto dettate dalla praticità di potersi muovere velocemente) e quindi ho detto: ”blue jeans neri, scarpe rosse … secondo me un bel connubio”. 
Foto di Michael Schlueter
Sono andato in America e al primo festival tutti gli americani mi fermavano e dicevano: “Ah! The new italian fashion!” E io ho fatto finta che fosse la nuova moda pazzesca che veniva dall'Italia, e me la sono tirata a quel modo. È successo che l’anno dopo, senza le scarpe rosse, erano tutti arrabbiati se non ce le avevo, quindi ho iniziato a portarle sempre. Poi ho scoperto che nella tradizione brasiliana il rosso è uno dei massimi portafortuna, nella tradizione cinese il rosso manda via gli spiriti maligni. Insomma, ci sono un sacco di motivi in più per cui ho mantenuto questa tradizione, che mi piace. È un piccolo particolare che è iniziato così, per caso.

Beppe Gambetta e il Folk Club; un sodalizio ormai consolidato dalle tante apparizioni che negli anni hai offerto su questo palco. Anche stavolta hai deciso di venire al club per presentare il tuo nuovo disco. Come nasce questo rapporto così speciale?
Il rapporto col Folk Club nasce nei primi anni di attività di Franco Lucà ed è stato un rapporto di reciproca stima. Franco aveva capito che io avevo una grossa volontà di essere non solo un musicista, ma anche di fare un qualche lavoro didattico, e l'inizio della mia collaborazione è stato a un festival in cui c'era stato uno dei miei primi seminari. Io bazzicavo Torino perché era stato prodotto qui il mio primo libro di chitarra. È interessante: quarant’anni dopo questa produzione, ieri sera c'era ancora un ragazzo che aveva questo mio primo libro [sorride] e mi diceva che aveva avuto un sacco di belle ispirazioni da questo. Quindi ho iniziato a venire a Torino per questo motivo e ci siamo conosciuti con Franco. Poi il Folk Club è nato e si è sviluppato … [fa una pausa]. Questo rapporto di affetto viene decretato dal pubblico, sempre. Quindi il fatto che questo mio pubblico non mi abbia mai abbandonato, e anzi forse si è anche accresciuto negli anni, ha reso questo rapporto bellissimo perché ogni mio passo è stato scandito da una presentazione o da una presenza al Folk Club, e quindi è un qualcosa di cui sono molto orgoglioso e contento.

Foto di Michael Schlueter
Passiamo a “Short Stories”. Mi pare un po’ una miscellanea di tutte le tue passioni, un sunto del tuo percorso artistico. Il primo brano che è saltato ai miei occhi è Randall Collins, un brano di Norman Blake che personalmente ho sempre amato molto. Come è nata la scelta di questa cover?
Il lavoro di preparazione di un disco è sempre un “work in progress” che nasce dai tuoi piccoli pezzi di carta, dai tuoi appunti, a volte stracciati da un tovagliolo di un ristorante, o da un pezzo di carta trovato al volo. Ho visto un documentario su Woody Allen e su altri artisti. Woody Allen, quando deve fare un nuovo film, va a prendersi tutti i suoi pezzi di carta e tutti i suoi appunti che si è scritto nelle tasche, o per strada, e li mette tutti quanti sul letto. E poi, lentamente, mette insieme le cose che gli piacciono, che gli sembra che formino un canovaccio per una sua nuova storia. A me succede lo stesso. Tutti i miei progetti, le mie cose, sono sparse su dei fogliettini. In momenti disparati mi arrivano idee per fare nuove musiche e poi me le appunto, o brani che sento e che mi piacciono. E quindi, tutte le volte che inizia un nuovo lavoro, sono il disastro per mia moglie perché la casa si riempie di fogli dappertutto, sui pavimenti … e io cerco di mettere insieme un po' tutte le idee e vedere cosa ha senso unire, sintetizzare. La scelta delle canzoni deriva solo dalla bellezza di tutto ciò che hai sentito e provi. Per scegliere le quattro canzoni che ho cantato, per esempio, ne ho provate una ventina, e c'è sempre la canzone che funziona meglio per la tua voce, c'è sempre quest’attimo in cui ti accorgi che riesci a cantare una canzone in modo lievemente più tuo. La scelta, come sempre, casca nel momento in cui tu vedi una piccola scintilla artistica. Naturalmente tra le varie canzoni ci sono tutte quelle del grande maestro Norman Blake, che è un punto di riferimento perché non è solo il grande chitarrista, è un uomo con una grande statura proprio come personaggio, come musicista completo quindi, ma anche come compositore. 
Foto di Michael Schlueter
È sempre stato un mentore per tanti, anche per me. È bello quando fai un lavoro andare a prendere dal passato questa cosa meravigliosa, a volte qualcosa che è stato messo in un angolo e dimenticato, e “Randall Collins” poi rientra anche nel filone delle storie dei banditi, del tipaccio che deve fuggire, che poi fa parte del tipico materiale che viene scelto dai cantastorie, da quelli che cantano i personaggi del passato.

“Benedicta 1944” è, secondo me, uno dei brani più ispirati del disco. Un brano strumentale per ricordare un fatto drammatico come una strage di guerra. In Italia, in altre stagioni, siamo stati abituati alla canzone militante, anche con una certa dose di retorica. Come si può tradurre invece il sentimento per un evento simile in musica, e solo in musica?
C'è questa idea di composizione che racconta una storia, che non è semplice sulla chitarra. Quando io compongo un brano spesso decido una storia, decido un tema, e provo a raccontarlo semplicemente con le note. Molti compositori si lasciano andare ad una ricerca di una melodia bella, e secondo me è bello comporre avendo un pensiero, un pensiero di un qualcosa che vuoi raccontare. E così mi è venuta questa prima frase che, pensavo: “mi ricorda un po' un accampamento di ribelli”, e pensando all’accampamento di ribelli mi è venuto in mente la storia di questa Benedicta, che è ancora una ferita nella nostra storia della Resistenza, perché erano questi ragazzi … non erano organizzati, non avevano armi, avevano qualche pistola, qualche fucile da caccia. Volevano organizzare una resistenza, erano nascosti in un vecchio monastero, erano molte centinaia. È arrivato l'esercito dei nazifascisti e li hanno massacrati completamente. La storia è molto triste perché sono stati torturati, sono stati deportati a Mauthausen. 
È quindi un qualcosa che rimane ancora, il cui ricordo è molto triste in tutti i paesi limitrofi a questo. Sono andato su questo campo di battaglia della Benedicta. È interessante come nei luoghi in cui sono successe certe cose si sente ancora questa vibrazione della sofferenza. Quindi ho deciso di dedicare alla Benedicta questa composizione perché proprio il senso della musica folk è anche quello del ricordo, cioè di raccontare il passato, di aiutare la memoria e di sperare in un mondo migliore, di proiettarlo verso un futuro più bello. Questo è il motivo per cui ho scelto di dedicare questa melodia alla Benedicta. Ci son tanti modi di essere per la pace; per esempio Fabrizio De André scriveva canzoni in cui raccontava storie orribili di guerra, e si può essere per la pace anche con una melodia triste che ricorda un fatto terribile accaduto tanto tempo fa.

“Der Wind trägt uns davon” è un brano che non ci aspetteremmo di trovare in un disco di Beppe Gambetta. Tu hai collaborato con Felix Meyer, l’interprete originale di questo brano. Puoi raccontarci qualcosa in più di questo incontro?
Il fatto nasce dai miei viaggi e da una mia frequente presenza nei paesi del nord Europa, in particolare Germania, Austria e Svizzera. In particolare in Germania, in tutti questi miei viaggi, nei miei contatti con le nuove generazioni, ho sempre notato questa attenzione a creare amicizie, una grande attenzione a lavorare per un mondo migliore, più bello; diciamo un egoismo minore da parte tutti questi intellettuali e artisti che provengono dalla Germania. Un po', probabilmente, deriva dall'avere un peso della storia molto grosso sulle proprie spalle e dal voler girare pagina. C'è proprio questo sentimento di ricerca di bellezza e pace e di una nuova società che dimentichi il passato, da parte delle nuove generazioni tedesche. La lingua tedesca non si presta tantissimo alla poesia, al canto … povero Goethe! È più difficile, diciamo, trovare metriche, parole … Quindi negli anni ho cercato tramite i miei amici: “Quando trovate un folk-singer che scrive parole, testi belli che io possa cantare con un'estetica di folk americano speditemi gli mp3.” E un mio amico mi ha fatto sapere di questo Felix Meyer, che è un artista fantastico, e che ho invitato anche alla prossima “Acoustic Night”. Un artista che ha proprio delle caratteristiche, delle scelte musicali, molto interessanti.
Lui con i suoi amici vive per la strada, suonando solo per la strada; nasce come musicista di strada ed ha una bravura tale nel cantare, nell’arrangiare, nel comporre, che il produttore dei Tokyo Hotel si ferma ascoltarlo … finisce di cantare la canzone, e gli dice: “Vieni in studio.  Ti faccio un contratto con la Sony, milionario! Produciamo e lanciamo in tutta Europa la tua musica.” E lui dice: “Sì, va bene. Però io sono musicista di strada. Il mio rapporto con la gente deve essere questo.” Quindi, pur avendo un successo incredibile, lui continua a dare concerti per strada mettendo sui giornali gli appuntamenti … e poi arrivavano migliaia di persone in strada ad ascoltarlo! Un artista con delle scelte artistiche molto, diciamo, “pure”. Mi ha intrigato questo suo lavoro. Sono andato personalmente a cercarlo. Sono andato personalmente a conoscerlo perché avevo questa idea di iniziare un lavoro su Fabrizio De André: tradurre Fabrizio De André in lingue diverse (che è il tema della prossima “Acoustic Night”) e siamo diventati amici. Lui è anche un essere umano molto interessante, che lavora per la bellezza. E quindi la scelta di “Der Wind trägt uns davon” … è Il brano col ritmo e con la cadenza più vicine alla mia musica tra tutti. Con la mia presenza, a questa generazione così bella di nuovi musicisti tedeschi, ho dedicato questa trascrizione.


Beppe Gambetta – Short Stories (Borealis Record, 2017)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

È sempre difficile rimanere obiettivi quando si deve scrivere di un artista di cui negli anni hai fedelmente seguito il percorso. Tuttavia, nel mondo della musica acustica italiana, ogni nuova uscita di Beppe Gambetta è sempre un evento che merita speciale attenzione, sia per la qualità della proposta musicale (alla quale ci ha abituato in una carriera ormai trentennale), sia per il rispetto dovuto ad un artista che ha sempre mantenuto una garbata ma severa coerenza artistica, guadagnandosi nel tempo un rapporto speciale con il proprio pubblico. Diciamo subito che anche stavolta Gambetta non tradisce le attese: il lavoro si mantiene nel solco che sta seguendo ormai da diversi anni, e cioè quello di un ponte tra la tradizione folk americana e quella popolare e italiana ed europea, con qualche sortita nella musica colta. Il disco ha già avuto un’ottima accoglienza negli Stati Uniti dove a Novembre ha raggiunto il quarto posto nella Folk DJ List di folkradio.org, rimanendo tuttora in classifica. Il brano di apertura, “Tecumseh” è una cover del violinista/mandolinista americano Peter Ostroushko. Il brano è riproposto in pieno stile Gambetta, e l’estro chitarristico viene esaltato dalle progressioni di accordi che accompagnano il crescendo di una linea melodica decisamente accattivante. Ma per gli amanti della musica bluegrass “l’orecchio” cade immediatamente sulla traccia numero due: “Randall Collins”, piccolo gioiello di Norman Blake che Gambetta ripesca, addolcendo però l'idea originaria con un tempo più lento e trasformandola in una ballata struggente. Un arrangiamento che certo non sfigurerebbe tra le mani di una Alison Krauss e simili. “Benedicta 1944” è il primo brano originale; uno strumentale ispirato al tragico episodio della strage nazifascista dell’abbazia della Benedicta a Bosio (Alessandria). Probabilmente il brano più intenso del disco, molto lirico, in cui apprezziamo il felice connubio tra il livello compositivo e l’arrangiamento, raffinato e ricco di sottili particolari. Non è la prima volta invece che Gambetta, genovese anch'egli, riprende Fabrizio De André, ma se "Jamin-a" è l’ideale seguito di altri brani in dialetto genovese già ripresi precedentemente, con "Il Pescatore" per la prima volta reinterpreta il De André italiano, trasformandola in una morbida e sofferta ballata country. Allo stesso modo, per chi ne ha seguito il percorso artistico, non è una sorpresa l'adattamento dell'aria "La Vergine degli Angeli" da "La forza del destino" di Giuseppe Verdi. Già presente in “Serenata” con Carlo Aonzo, viene qui riproposta per chitarra sola, in una versione ancora più minimale e rallentata, ai limiti della chitarra classica. Sorprende un po’ invece “Der Wind tragt uns davon”, la traduzione del cantautore tedesco Felix Mayer di un brano dei Noir Désire “Le vent nous portera”; una scelta frutto dell’incontro con il cantautore tedesco (v. intervista). Non è la prima volta che il nostro tenta sortite in territori “scivolosi”, anche se sentirlo cantare in tedesco è una sorpresa anche per noi, ed al primo ascolto ha un effetto oggettivamente straniante. È certamente prova dell’interesse verso la realtà cantautoriale europea in lingua non inglese, realtà spesso ignorata anche dalle riviste e dai recensori di casa nostra, ma che invece pare attrarre Gambetta sempre più. Probabilmente il futuro ci riserverà qualcos’altro lungo questa stessa via. Stay tuned! Con “Super Hit” e “Notes from the road” si torna nel giardino di casa, quindi nel territorio di quello “spaghetti” flatpicking (ci perdonerà la definizione) dalle melodie mai completamente country, anzi con quell’esotico retrogusto europeo che, soprattutto per l’orecchio americano, è il suo vero marchio di fabbrica. Più eterea la prima, quasi hedgesiana, più marcatamente bluegrass la seconda, di cui apprezziamo ancora una volta la bella sequenza di idee melodiche. Il medley finale è una registrazione tratta dall’Acoustic Night 2017, un set condiviso con Pat Flynn, Bryan Sutton e David Grier. È un omaggio al maestro di sempre, Doc Watson, ed è forse l’unico momento di “vanità” dell’intero disco, in cui si segnala una “Black mountain rag” più veloce del West, ma che nel contesto dal vivo è più che ben accetta e comprensibile “ad usum populi”. Questo “Short Stories” quindi è una nuova tappa di un percorso musicale che Gambetta ha inaugurato già molti anni fa, quando si è distaccato dalla musica bluegrass in senso stretto, ed ha cominciato ad utilizzare la tecnica flatpicking come un anello di congiunzione tra la musica tradizionale americana e quella europea ed italiana in particolare. Un accostamento, sulla carta, ardito, ma che Beppe Gambetta invece è riuscito a realizzare in modo eccellente, grazie soprattutto ad uno speciale talento nel creare delle melodie accattivanti che sono il vero asse portante per le sue composizioni. Un’abilità non comune, ma felicemente mutuata dalla lunga frequentazione della musica bluegrass che proprio dell’intreccio di ritmo e di una melodia immediatamente riconoscibile ha un suo tratto peculiare. In questo senso il suo lavoro, concettualmente, è più simile a quello che, in tempi e contesti diversi, ha realizzato un Ry Cooder; rimandare alla sola tradizione della chitarra flatpicking di Doc Watson, Norman Blake, Tony Rice etc. già da molti anni ci appare riduttivo. Nel tempo ha dimostrato sempre maggiore confidenza con i brani cantati, anche se, a nostro avviso, quelli in dialetto genovese rimangono quelli in cui dimostra maggiore dimestichezza. Beppe Gambetta è sicuramente un eccellente chitarrista, si direbbe, con termine ormai abusato, “un virtuoso”, ma di un virtuosismo mai fine a se stesso, espressione che mai come nel suo caso si dimostra non una frase fatta, buona per assecondare la finta modestia dello strumentista di turno. La tecnica gli permette di affrontare realmente qualunque passaggio musicale, ma la velocità e l’intreccio sono due dei mille ingredienti nella tavolozza dei colori di un compositore a tutto tondo, che non scade mai nell’autoindulgenza. In conclusione: un disco che certamente non rappresenta una svolta, ma che è la conferma (ulteriore) di un bel percorso musicale che può ancora regalare molte cose, e di cui attenderemo piacevolmente la prossima tappa.




Pier Luigi Auddino

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