Chiara Liuzzi - Floating… Visions of Billie Holiday (Leo Records, 2015)

“Floating… Visions of Billie Holiday” è un chiaro tributo alla voce straordinaria della signora del jazz, altrimenti conosciuta come Lady Day. L’album è composto da dieci tracce, tutte interpretate seguendo un progetto sperimentale, trasfigurando il groviglio di emozioni e la tensione del repertorio della Holiday dentro un quadro strumentale sicuramente inaspettato. Innanzitutto l’elettronica, dolce e fosca, che spira sotto la voce della Liuzzi con un susseguirsi di echi appena percettibili ma spessi e caratterizzanti. Poi i fiati bassi - clarinetto basso e sax baritono - che trascendono la forma stessa dei brani, consegnandoci dei segnali di fumo, inafferrabili quanto quadrati, densi, polverosi. La voce di Chiara Liuzzi ha inacidito la forma “tradizionale” dei brani della Holiday. E il risultato è straordinario. Il procedimento è più netto in brani come “Vision of don’t explain” e “Vision of my man” (in quest’ultimo assume i tratti di un jazz visionario, costruito sul tratteggio di suoni e rumori, resi coerenti dalla voce che saltella su una base sfuggente e allo stesso tempo cadenzata al metronomo), ma sottende un progetto che inquadra la successione di tutte le tappe della scaletta. I momenti migliori si espandono sopratutto nelle “visioni” della Holiday. Quelle visioni in cui il contributo della cantante di Philadelphia arriva fin dalla scrittura. Tra questi vi sono passaggi trascendenti in “Vision of god bless the child”, nel quale alla limpidezza della voce fa da perfetto contrappunto un rombo basso che si avvita al brano fin dal prologo. L’effetto è coerentemente straniante e riconduce diritti alla mistica della Holiday: imperfetta, diversa, incomprensibile. In questo quadro possiamo inserire anche “Vision of Billie’s blues”, che nell’introduzione confluisce in una sequenza di suoni morsicati, fino a splendere nel canto della Liuzzi (come in una concessione, un intermezzo rassicurante), per poi ritirarsi in nuove contratture elettroniche (“I’ve been your slave/ since I’ve been your baby”). L’ultima visione è principalmente vocale ed è un epilogo comprensibile dell’intero progetto. I suoni ci sono ma servono a sostenere il canto: si susseguono e strisciano l’uno sull’altro per allungarne la sensazione, il suo ricordo, la sua forza evocativa: “Vision of strange fruit” è uno tra i migliori degli ottimi brani scelti e interpretati per questo interessante tributo. 


Daniele Cestellini

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