Confessioni Di Un Autodidatta

Non sono un organettista, come non sono un chitarrista o un mandolista solo per citare gli strumenti musicali che uso di più, ma in questo caso i riferimenti sono più all’organetto diatonico. Si, perché di strumenti si tratta e, in quanto tali, me ne servo per poter esprime certe emozioni, tradurre certe sensazioni che solo con il linguaggio della musica posso esternare facilmente, altrimenti mi è impossibile farlo. Sono un autodidatta, nel senso che non ho frequentato alcuna scuola e non ho avuto maestri, se non occasionali, e principalmente anziani. I tempi sono cambiati, oggi non esistono più maestri o, perlomeno, esistono ma non sono più quelli di una volta. Il maestro di una volta, quello di tradizione orale, intendo, attraverso l’insegnamento dello strumento, ti trasmetteva l’educazione, il rapporto con gli altri, il modo di convivere nella comunità, spesso aveva l’autorevolezza superiore a quella dei genitori stessi, era, insomma il tuo tutore principale, il responsabile della tua educazione sociale. Lo strumento musicale era appunto uno “strumento”, un pretesto e il maestro il trait d’union tra l’allievo e la vita sociale, comunitaria. Quindi dietro c’era uno spirito, una coscienza, se pur spesso infelice, che alimentava e nobilitava l’insegnamento. Oggi questo rapporto si è ridotto ad una mera trasmissione tecnica, nozionistica, al massimo di stile. Ho avuto la fortuna di imparare la chitarra da un maestro, autodidatta anche lui, quando avevo intorno ai 14 anni; solo qualche anno di “apprendistato” che mi ha permesso di avere le basi per continuare nella ricerca e poter utilizzare lo strumento per esprimermi. Veramente maestro è colui che ti insegna ad essere indipendente da lui e autosufficiente nella vita. Mi considero quindi un musicista di tradizione, nel senso che la mia formazione mi deriva dalla trasmissione orale, dall'esperienza diretta e dallo studio personale dello strumento. La mia scuola di musica, come anche per il resto della mia vita, è stata quindi la strada, le persone che vi ho incontrato con cui ho condiviso gioie e dolori e musica. Non mi è mai stato necessario imparare le scale maggiori, minori, ecc... né gli accordi sulla tastiera; se mi si chiede di cercare una nota sulla tastiera ci metto un po' di tempo, non la riconoscerei immediatamente. Preferisco usare l'orecchio perché di musica stiamo parlando, no? Gli occhi dovrebbero rimanere chiusi, per concentrarsi di più, immergersi più profondamente nell'ambiente sonoro. O no? Se qualcuno mi chiede di eseguire qualcosa preferisco che me la faccia ascoltare piuttosto che dettarmi le note o presentarmela scritta su un pezzo di carta: faccio prima, molto prima. 
Quando compongo quindi non mi serve carta e penna ma solo lo strumento. Stendo le mani sulla tastiera e le dita prima o poi troveranno le note consone al mio stato d'animo, la musica che voglio suonare. Quindi la mia, nella maggior parte dei casi, è musica che nasce non intenzionalmente. Cerco di non pensare a me stesso mentre sto suonando e di liberarmi dalla coscienza di ciò che sto facendo. Anche quando compongo una colonna sonora preferisco pormi di fronte allo scorrere delle immagine e abbandonarmi alle sonorità dello strumento, a come riescono a esternare l'emozioni che un flusso di immagini, o una poesia o un testo mi trasmettono. Così, con impatto diretto, premo i tasti sull’organetto, inseguo le note fino a che non sento una melodia, un’armonia, un ritmo piacevole, commovente, che mi spreme il cuore e mi soffia nell’anima. Mi interessa poco scoprire, studiare le infinite possibilità dello strumento: lo strumento è l'organetto e non voglio finire ad esserlo io in funzione di una scuola, un'accademia o, peggio ancora, di un pubblico e di uno spettacolo. Anzi, spesso, dal vivo, quando io suono non ci sono. In verità mentre suono sto sognando; è quando le ultime note del pezzo musicale stanno morendo che mi risveglio . Spesso mi accorgo che la tecnica diventa puro esercizio scolastico se priva di creatività, di passione, di pathos, di sentimento, e quindi sto bene attento a non farla prevalere. Ovviamente ho i miei punti di riferimento, sempre non intenzionali, dovuti al mio background culturale musicale, a quello che sento e ho ascoltato in passato, perché, in definitiva, nel mio rapporto con la musica una larga percentuale è dedicata all’ascolto, superiore rispetto all’esecuzione. Come dire... preferisco ascoltare più che suonare, usare l’orecchio più della bocca. Dicevo sui miei punti di riferimento... primo fra tutti la musica popolare, la musica etnica, nativa, che attinge direttamente alla tradizione orale espressione delle radici nello spirito di un popolo che non ha bisogno, per esempio, della scrittura ma della sua cultura orale. La scrittura, mi riferisco a quella musicale, è sempre imprecisa nella comunicazione rispetto all'oralità ed è tipica di una società, di una visione del mondo dove la vista ha predominio sugli altri sensi, quindi tipico della modernità. Partire dalle proprie radici rende più sicuri e entusiasti durante un percorso di crescita. 
 E in questo caso mi considero fortunato, sempre per quel concetto che spesso mi ritrovo a ripetere, della non intenzionalità, che mi serve per indicare come la musica tradizionale per me non è stata una scoperta successiva, dovuta ad eventi legati ad un’epoca di revival o riscoperta, né un interesse puramente intellettuale, ne una riflessione concettuale; perché è stata sempre presente nella mia vita come il sangue che mi scorre nelle vene. Altri punti di riferimento successivi sono stati le tradizioni native di tutto il mondo, la musica degli anni settanta, periodo di maturazione musicale personale, dal pop al folk, dalla canzone d’autore al rock progressivo, alla psichedelia, ecc.. Trovo particolarmente prolifico questo periodo e, tutto ciò che è stato prodotto dopo, salvo eccezioni, non mi dice niente di nuovo. Poi penso a certa musica contemporanea, al minimalismo, specialmente quello melodico. Ovviamente mi riferisco alla musica in Occidente! Oggi dal resto del mondo arrivano stimoli e riflessioni sempre più entusiasmanti e profonde! Ritornando all’organetto, nella maggior parte dei casi uso un 8 bassi, per me l’organetto è questo, fondamentalmente! Ho provato anche con un 12 bassi e prima avevo anche un 18 bassi, non mi sembravano più organetti, ma fisarmoniche striminzite: l’organetto deve essere diatonico se no è un’altra cosa! Questo mi ha insegnato la mia tradizione e comunque credo che l’8 bassi abbia ancora tanto, tanto da dire! Trovo la scala diatonica molto vicina al mio essere musicale e la limitatezza dell’organetto una sfida! Infine, debbo considerare che i punti di riferimento nella mia crescita musicale non sono solo strettamente legati alla musica che non ho mai considerata fine a se stessa; anzi debbo ammettere che questi punti sono assai più presenti e importanti di quelli che ho elencato prima. Ma questo discorso è assai lungo, mi prometto di affrontarlo in futuro in modo più approfondito e chiaro. Per adesso mi permetto solo qualche sospiro e qualche battito.

Donatello Pisanello
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