Intervista a Luigi Chiriatti

INTERVISTA ESCLUSIVA!

a cura di Salvatore Esposito

Etnomusicologo, musicista, ricercatore e da qualche anno anche editore, Luigi Chiriatti, è una delle vere anime della musica salentina. In questa lunga intervista che ci ha gentilmente concesso, ospitandoci nella sua splendida casa di Galatina, abbiamo ripercorso con lui la storia della musica di riproposta nel Salento, senza dimenticare la casa editrice di famiglia, la Kurumuny.

Come nacque il desiderio di recuperare la musica del passato, la musica del popolo...

C'era l'urgenza e la necessità di salvaguardare un patrimonio di cui si erano perse le tracce, tenendo conto che, quando abbiamo cominciato non conoscevamo affatto le ricerche fatte da Lomax nel 1954 e da Bosio nel 1968. Eravamo pieni di entusiasmo, perché tutto ciò che era popolare era rivoluzionario. Tuttavia c'era proprio questa esigenza di mettere al sicuro un patrimonio, in quanto già all'epoca la gente faceva fatica a ricordare, un po' perché se ne era persa la memoria, un po’ perché ricordare significava ritornare ad un passato povero, misero, difficile, contraddittorio. Ci sono voluti vent’anni di emigrazione perché un minimo di benessere e dignità tornassero in questa terra. Era più semplice rimuovere una memoria che non richiamarla alla mente.

Com'è partita la ricerca, o meglio da dove siete partiti?

Abbiamo cominciato a percorrere in lungo e in largo la campagna salentina, ma più che nelle campagne la ricerca la si faceva di sera nelle cantine di vino. La più famosa è quella degli Zimba, il Miles Gloriosus; ma ce n'erano delle altre a Martano, a Corigliano. Le botteghe erano il punto di incontro degli anziani, nelle quali si ci infilava di soppiatto, e a volte la ricerca andava bene, altre volte male. Il fatto di essere locali, di conoscere il dialetto di dare spiegazioni sulla “razza” (per razza, si intende in questo caso la genealogia familiare... tipico del Salento è la domanda "A ci appartieni?"), ci permetteva di interloquire direttamente con queste persone. Questo è stato l’inizio della ricerca. Gli stessi Ucci, che solo successivamente si chiamarono così, nacquero proprio in questo modo. Incontrai prima Uccio Bandello, poi Uccio Aloisi e poi l’altro, Uccio Casarano, nacque la necessità di fare delle registrazioni insieme. Era più semplice indicarli come Ucci. Questa ricerca non si è mai interrotta, io sono stato molto curioso, e fino al 1986-1987 andavo a registrare sistematicamente tutte le sere, poi per una serie di circostanze dovute anche al lavoro ho diradato le sedute di registrazione. Naturalmente però ho continuato e ancora adesso sono impegnato nelle registrazioni di alcune donne di Copertino, che negl’anni sessanta e settanta facevano parte di alcuni gruppi di riproposta folkloristica "alla Bruno Petrachi" per intenderci. La musica popolare cittadina ha avuto una maggiore diffusione rispetto a quella contadina, però posseggono un patrimonio importantissimo a livello tradizionale che funge quasi da trait union con la musica popolare salentina.

In tutti questi anni lei ha avuto modo di raccogliere molto materiale, qualcosa è stata già pubblicata dalla sua casa editrice, ha ancora molto materiale?

C’è tutto un archivio ancora da pubblicare, in questi anni mi sono spinto da Otranto a Santa Cesarea, escludendo solo l'Arneo nel quale la presenza di Stifani appagava ampiamente il ricercatore. Ho attraversato il Salento in lungo e in largo e ho avuto modo di saggiare tutte le sfumature della nostra tradizione musicale. C’è tanto materiale ancora però inedito e che voglio pubblicare, c’è un cd che avevo preparato per Uccio Bandello, che dovrebbe uscire prossimamente, poi altro materiale dei Cantori di Otranto. Presto vorrei pubblicare anche una monografia su una donna cieca di Castro, Donna Cecilia, che mi ha accompagnato lungo tutta la mia ricerca in quelle zone. Ricordo che aveva abilità eccezionale, con lei abbiamo registrato anche alcuni suoi canti meravigliosi. Preferisco fare monografie piuttosto che antologie, perché mi permettono di raccontare a tutto tondo i personaggi con cui ho avuto a che fare, facendo emergere il loro lato più umano. Diversamente resterebbero delle raccolte di canti, che sminuirebbe anche il lavoro di ricerca. Noi siamo arrivati ai canti passando attraverso l’umanità.

Come vede questo fermento musicale continuo che anima il Salento, fino a qualche anno fa se non erro suonava anche lei...

Almeno fino al 17 luglio 2001 ho suonato poi ho smesso sia per raggiunti limiti di età, sia perché non condividevo la piega che stava assumendo la musica di riproposta in quel periodo e che ha assunto poi successivamente. Premesso che non ho niente in contrario contro la riproposta, anzi sostengo che tutti questi ragazzi che si occupano di questo tipo di musica saranno i cantori di domani. Quanto meno questa memoria non subirà più spezzettamenti come è successo tra gli anni cinquanta e settanta. C’è un filo di continuità che ci permette di sperare che negl’anni successivi che questa memoria resti viva. Tuttavia c'è putroppo molta improvvisazioni, ci sono dei grossi problemi che nascono per la quasi mancanza di studio rispetto al canto tradizionale. Una delle caratteristiche che ha caratterizzato gli anni della riproposta è stata proprio questa banalizzazione della musica tradizionale salentina, che come tutte le musiche del mondo ha delle caratteristiche specifiche che la contraddistinguono. L’idea è questa, se sono uno che vive in Europa, devo avere la capacità di distinguere ascoltando un brano, se è musica popolare salentina, se è napoletana o sarda, se è jazz o rock. Se noi snaturiamo la sintassi musicale, che caratterizza la tradizione salentina è evidente che diventa irriconoscibile dal punto di vista stesso della conoscenza. Detto questo, le caratteristiche fondamentali del canto sono il salto del semitorno di un quarto di tono, quindi una scala non tonica, e questo soprattutto nel canto rurale. Ma cosa accade. Accade che coloro che si occupano di riproposta individuano questa particolarità, essendo a questo punto voci e strumenti in dissonanza, e arbitrariamente semplificano il tutto secondo una scala tonica, piuttosto che approfondire lo studio e i perché c’è questa particolarità. Si cancella così la caratteristica fondamentale e il modo di cui parlava Carpitella, viene sottratto alla conoscenza. Ammetto anche il riadattamento della pizzica secondo canoni più giovanili, ponendo magari più attenzione ai ritmi cadenzati, facendola assomigliare più alla musica da discoteca, però anche là sono stati inseriti i controtempi, che non fanno parte della tradizione, non sono parte di una riproposta musicale ne tanto meno di una riproposta culturale. La ritualità della musica è circolare e non può essere interrotta. Se la si interrompe bisogna ricominciare ogni volta daccapo e i controtempi non fanno altro che interrompere e distrugge questa ritualità. C’è pochissima attenzione verso gli aspetti più generali del canto. E' vero che la pizzica è l’elemento trainante, ed è giusto che sia così perché è quello che raggiunge più facilmente il pubblico giovanile, ma è pur vero che esistono tante altre sfumature e generi musicali diversi nella tradizione salentina, penso ai canti alla stisa, agli stornelli, ai sonetti, alle melodie. Vanno capite le differenze sostanziali del canto alla stisa di tradizione grecanica e quello di estrazione romantica. Il fatto che si stia perdendo e peggio ancora che si sia perso l’amore per questo tipo di studio è che non ci sono luoghi in cui poterlo fare.

In proposito come vede l'Istituzione dell'Archvio Sonoro di Bari?

E' probabile che la nascita di questo archivio possa colmare il vuoto di cui parlavo prima, ed io sono il primo a sperarlo, perché una delle caratteristiche della nostra musica è che attualmente è veramente povera, nel proporre generi ma anche nel proporre varianti nei testi. I vari gruppi attuali non fanno altro che riproporre quei trenta quaranta canti che si riproponevano quarant’anni fa, a dispetto di un corpus di centinaia e centinaia di testi e melodie che esistono nel Salento. Tuttociò semplifica troppo la musica salentina e non le rende giustizia, avendo radici complessissime, e parlo della tradizione balcanica, di quella siciliana, quelle grecaniche ma anche di altro tenore soprattutto per quello che riguarda i canti epico-narrativi, essendo il salento più che altre regioni d’italia, custode di questo particolare stile. Bisogna ricominciare a chiedersi il come e il perché sono stati riadattati. Si rischia di far passare il Salento come il luogo della pizzica, quando abbiamo invece una ricchezza musicale di straordinaria importanza su cui bisognerebbe investire di più. Nel Salento manca dunque un archivio sonoro, c’è quello di Bari è vero, ma siamo a centocinquanta chilometri. E’ vero si può lavorare anche via Internet, ma è una cosa molto diversa.

Abbiamo parlato dell'esigenza di un archivio sonoro per il Salento, ma quest'idea non era alla base anche dell'Istituto Diego Carpitella...

Quando dodici anni fa si diede inizio l’Istituito Diego Carpitella, una delle motivazioni su cui abbiamo lavorato ed in particolare su cui ho lavorato io in prima persona è stata proprio la costruzioni di questo archivio e non parlo solo di un archivio storico, ma anche uno contemporaneo. Bisogna tener presente che dal novanta ad oggi ci sono stati centinaia di gruppi che hanno inciso dischi e non c’è un poso dove è possibile ascoltare questi dischi perché belli o brutti che siano, non ha importanza, non faccio una differenziazione di qualità, ma era necessario che ogni disco inciso venisse in qualche modo conservato, lasciato a memoria futura in un luogo fisico dove gli appassionati, gli amanti della musica salentina potessero studiarli. Spero che qualcosa si muova, io sto aspettando questo archivio da almeno trent’anni e lo dico senza polemica, ma senza il lavoro, lo studio, l’applicazione, senza poter conoscere è difficile inventare qualcosa di nuovo che sia da base per costruire qualcosa che abbia solidità.

Come vede la musica di riproposta rispetto a quella degli anziani, quei pochi anziani che mantengono vivo il fuoco sacro della musica salentina..

Rispetto alla riproposto, preferisco ascoltare gli anziani, che sono senza dubbio molto ma molto più emozionanti nei passaggi musicali. E non dico questo per sentire nostalgico, perché se così fosse brucerei l’archivio dopo un minuto. E' pur vero che sono pochissimi coloro che riescono a pieno nel ripetere quei passaggi musicali così emozionanti, e non perché non ne hanno le caratteristiche, ma perché non conoscono a fondo l’importanza e la vera natura di questi passaggi musicali. Quando viene qua da me il maestro concertatore della Notte della Taranta e ti dice preventivamente che quest’anno svilupperà le influenze balcaniche nella musica salentina, senza che ne sappia niente, senza aver ascoltato un disco o aver parlato con un ricercatore, io lo trovo molto sospetto. E allora la domanda è, sei sicuro che ci siano influenze balcaniche nella musica popolare salentina? E questo prima di sviluppare un tema che forse non ci riguarda minimamente. Cioè, ho la sensazione che questa sia terra di conquista e noi facciamo il rito del buon selvaggio per essere accettati, ci mettiamo le perline al naso, la gonnellina di penne di pavone e diciamo, quanto siamo bravi, veniteci a studiare. Va benissimo che la Notte della Taranta sia stata il mezzo per far conoscere questa terra, per accendere i riflettori sulla nostra tradizione, però ogni tanto bisogna fermarsi un attimo e dire dove stiamo andando.

A questo punto mi corre l'obbligo chiederle un opinione proprio sulla Notte della Taranta...

Quest’anno non sono stato alla Notte della Taranta, ma ho letto un po’ di articoli su Repubblica, e soprattutto uno mi ha lasciato molto perplesso e mi ha fatto arrabbiare non poco, per la verità. In questo articolo si leggeva che il Salento, tutto sommato era la terra dove si poteva fare come a Rimini vent’anni fa, andare sulla spiaggia, cantare, suonare, andare poi dai contadini che non solo ti permettono di raccogliere i fichi dalla loro campagna, ma ti dicono anche quali sono i più buoni. Questo fa parte di un senso di ospitalità, che caratterizza questa terra, sin da quando è emersa dalle acque, visto che non è possibile che sia diverso, visto che da qui sono transitati tutti e avremmo dovuto combattere contro tutti. Ma da qui a definire il Salento come un posto che non ha regole, che non ha un etica di appartenenza al territorio, mi sembra incredibile, mi sembra un delirio. Si lavora con un solo elemento, il tamburello che caratterizza la pizzica, ma tutto sommato basta vedere la Notte Della Taranta. Siamo stati invasi dai tamburelli cinesi. Niente da eccepire perché tutti devono lavorare, ma almeno facciamo un consorzio di costruttori di tamburelli e difendiamo un prodotto…

Questa dei tamburelli cinesi mi suona davvero nuova?

Non li hai visti? C’erano venti forse trenta bancarelle improvvisate di tamburellini cinesi. Visto che è l’unico elemento che è si sta portando avanti cerchiamo almeno di difenderlo, proviamo a consorziare i costruttori e a difendere questo prodotto così come difendiamo l’olio. Voglio dire bisogna stare attenti agli aspetti minori, perché sono poi quelli che lasciano i danni maggiori.


Sono spunti di riflessione sicuramente interessanti…

Ci sarà sicuramente qualcuno che dirà che c’erano i tamburelli cinesi che ci permettono di diffondere la nostra e mi va benissimo; ma io che ci vivo qui, sto attendo a capire come si evolverà questo fenomeno nel corso degli anni. Bisognerebbe stare più attenti a valorizzare questo patrimonio che è stato riscoperto negl’anni novanta e che ci permette di essere presenti e visibili, che porta grandi ricchezze, fa conoscere i nostri posti bellissimi. Bisognerebbe stare più attenti, anche a ciò che si vende nelle bancarelle, al cibo. La musica non può essere completamente avulsa dall’appartenenza al territorio, deve cercare di porre dei paletti entro cui muoversi. Tremo all’idea che non si faccia più La Notte della Taranta, perché torneremmo indietro di trent’anni, quando il Salento era la meta per pochi eletti, che andavano all’epoca con gli elicotteri devi vip per passarci le vacanze per il resto era terra di emigrazione e di ritorno. Io credo molto nei giovani, loro dovrebbero essere più coccolati culturalmente, perché è da loro che mi aspetto qualcosa di più concreto per la musica salentina.

Cosa ne pensa del recentissimo libro di Santoro, Il Ritorno della Taranta? Lui da una versione forse meno dura...

Non l’ho letto. Mi riservo di leggere il libro di Santoro ma tra qualche decennio, perché l’ho trovato offensivo. Ho letto qualche pagina e ho chiuso perché sarei stato costretto a rispondere in maniera troppo “dura”. Il mio è un problema, per così dire personale. Devo leggerlo quando sarò più calmo… ecco.

Com'è nata l'idea di dare vita alla casa editrice Kurumuny?

Kurumuny ha raccolto un po’ l’eredità di Aramirè, una piccola casa editrice nata quando facevo parte del gruppo omonimo e con cui abbiamo pubblicato alcuni lavori di archivio come Bona Sera a Quista Casa, Canto D’Amore e i Canti della Passione. Quando è nata Kurumuny, in parallelo è nata anche una collana di Etno-Musicologia, dove sono confluiti anche lavori non necessariamente del mio archivio come nel caso de La Pizzica Nascosta di Villacastelli a cura di Caramia e Mario Salvi, o ancora Tre Violini la Pizzica di San Vito dei Normanni di Giannini, e per ultimo le Sorelle Gaballo di Dario Muci.

Ho apprezzato moltissimo il lavoro di ricerca di Muci...

Questo libro apre uno spaccato bellissimo sulla Terra dell’Arneo. Una terra che tutto sommato è stata un po’ penalizzata dalla fortissima personalità di Stifani, la cui figura ha un po’ frenato gli interessi scientifici su altri aspetti musicali di questa terra che, vista la posizione geografica, funge quasi da cerniera tra le province di Lecce e Taranto. A parte la ricerca di Muci o la presenza di Cesare Monte, che fa tutt’altro tipo di musica più sul versante folk cittadino, non è mai stata esplorata. Spero che si continui a lavorare su questa linea perché ritengo che sia una delle zone più interessanti da riscoprire.

Qual'è l'idea base che anima le produzioni di Kurumuny?

Kurumuny ha come idea base quella di allargare la base sociale della conoscenza, quella di ricostruire una memoria orale e storica per poi moltiplicarla nel corso del tempo e questo lo deduco da molti anni di ricerca, la difficoltà di approccio con i cantori, ma non solo per quanto riguarda il canto ma anche quando ho fatto la ricostruzione della storia del moviemento contadino ho avuto problemi enormi per intervistare i protagonisti della lotta per le terre. L’idea fondante di Kurumuny è quella di ricostruire una storia del territorio da correlare ad avvenimenti di carattere nazionale, attraverso filmati, libri, raccolte e materiale d'archivio. Un esempio è il lavoro fatto con il libro sulle Lettere dei Braccianti Lucani, nato da un grosso lavoro sull'archivio messo insieme da De Martino tra il 1950 e il 1951. Basta rivedere il filmato Qualcosa nel mezzogiorno è cambiato di Lizzani del 1949, per riscoprire tutto un Sud in movimento, che ha gli stessi obiettivi, ovvero l’occupazione della terra per voltare pagina. Kurumuny vuole così partire dal Salento per allargarsi allo studio antropologico e sociologico di tutta la nazione, diversamente creeremmo una storia patria che lascia il tempo che trova e diventerebbe folklore, e a me non interessa. Il nostro obiettivo è quello di offrire, tirando fuori dal dimenticatoio tutti quegli elementi che riguardano la memoria orale e scritta del Salento ma soprattutto tentare di inquadrarli in un contesto nazionale attraverso la pubblicazione di scritti, di saggistica e di video. Nella stessa collana Fotogrammi offriamo una serie di supporti video come Fata Morgana e La Terra dell’Uomo. Sono tutti materiali che ci danno un idea di specificità del posto in cui sono stati fatti, ma ci permettono di capire anche l’Italia degl’anni cinquanta. Fata Morgana è un documentario sull’emigrazione, sull’arrivo dei treni a Milano, e basta cambiare i volti ai protagonisti con quelli dei moderni immigrati, per capire che le tematiche non sono cambiate nella maniera più assoluta. E questo ci permette di non essere la casa editrice del Salento ma di allargarci a dinamiche più ampie. Non so quanto riusciremo ancora a realizzare ma fin ora abbiamo fatto tanto, coinvolgendo anche personaggi autorevoli come Luigi Di Gianni, l’Università del Salento che cura i saggi sulla medicina del lavoro. La stessa cosa la stiamo facendo per la collana di etnomusicologia, nella quale è vero che privilegiamo gli aspetti riguardanti il Salento perché c’è tanto ancora da pubblicare. Stiamo però tentando di fare la stessa cosa per la Calabria e la Sicilia, per quello che riguarda le ricerche di Gianni Bosio. Non so quanta autonomia abbiamo, perché la nostra è un editoria di nicchia che non può competere con la grande distribuzione, ma resistiamo.

Ho apprezzato molto il modo in cui sono curate le vostre pubblicazioni…

Io vengo un po’ dalla vecchia scuola del libro come oggetto. Ho sempre avuto a che fare con persone che hanno scritto libri, amato i libri e che hanno seguito i libri dalla scrittura alla pubblicazione. L’idea di guardare il libro, toccarlo, pesarlo a volte, per me diventa fondamentale. E penso di aver trasmesso questo amore che ho io, anche a Giovanni che è il responsabile della casa editrice Kurumuny. Fin ora abbiamo fatto lavori belli ma anche accattivanti, che è una cosa importantissima. Perché se vedi una cosa che ti colpisce, ti incuriosisce, magari ti fermi. Se non ti lascia niente a livello di curiosità, tiri avanti. Voglio dire il libro va curato, al di là delle storie, al di là di internet. L’oggetto libro può avere ancora una propria vita. Quando abbiamo fatto il libro dedicato alla ricerca di Gianni Bosio nel Salento, uno dei momenti di scontro più forte ma direi di vero e proprio diverbio con Ivan Della Mea si è avuto quando dovevamo scegliere la veste grafica. Abbiamo scelto di dare al libro una veste elegante nonostante ci sia costato moltissimo rispetto ad un libro normale. La copertina di quel libro è stata fatta tutta a mano, per permettere i tagli delle tre tasche per contenere i tre cd, in modo che non fossero ingombranti. Se normalmente una rilegatura ti costa 70 centesimi, quella è costata cinque euro per ogni singolo libro. Però quel libro sia per i contenuti, sia per l’eleganza ha vinto il Premio Costantino Nigra. Per la prima volta una casa editrice del sud ha vinto quel premio. Ivan Della Mea non era convinto di dover spendere una cifra così alta per un libro. Siamo stati ricambiati in termini di apprezzamento e sono convinto che quando i libri sono fatti bene, vengono anche apprezzati. Certo se sbagli un libro, lo sbagli ma se lo sbaglia una casa editrice piccola come la nostra sono guai. Un libro con cd, costa tremila euro, di stampa non digitale ma di tipografia. Se sbagliamo un libro sono dolori. L’idea è quella di mantenere alta la qualità dalla carta alla copertina, non so per quanto riusciremo ad andare avanti ma la speranza non manca. Finchè è possibile lavoreremo in questo modo.

Rispetto al lavoro cominciato con Aramirè cosa vi differenzia?

Con Aramirè abbiamo fatto delle pubblicazioni di carattere musicologico, con Kurumuny ci stiamo inoltrando in una saggistica molto più ampia, rivolta al sociale, all’antropologia, e con una strumentazione diversa come i Dvd. Non c’è molta discontinuità perché i materiali di Aramirè arrivavano dal mio archivio e non c’è molta differenza, cambia la base su cui intervenire e su cui si interagisce.

Ci parli del tuo percorso musicale…

Ho cominciato per gioco con dei ragazzi di Calimera, poi sono confluito nel Canzoniere Grecanico Selentino che veniva da un'altra esperienza che era il Canzoniere Salentino che per motivi inerenti a problematiche loro si è sciolto con Luigi Lezzi che ha preso la strada delle performance teatrali e con la Bucci che insieme a Rina Durante ha dato vita a questo nuovo gruppo che ha cominciato a lavorare sulla riproposta ma con un occhio attento alla riproposta politica. Quelli erano gli anni e quello facevamo. Senza però disdegnare l’aspetto vocale e musicale ma la nostra strumentazione era molto povera, una chitarra, un tamburello, un armonica, e qualche volta un mandolino, il resto era affidato solamente alle voci. Io poi me ne sono andato dal Canzoniere, un po’ perché la spinta in tutta Italia era finita, un po’ perché avevo cominciato altre esperienze come animatore, perché ero diventato programmatore della comunità italiana di gioco infantile. E così sono stato fermo dall’ottanta all’ottantanove, poi però ho incontrato dei ragazzi che volevano suonare e avevano voglia di rimettersi in gioco con la riproposta. Siamo negl’anni in cui non c’era niente. L’unico che cantava era De Giorgi che faceva ancora riproposta. Da lì è nato il Canzoniere della Terra D’Otranto, che ha avuto grandi meriti. Uno di questi è stato certamente il fatto di essere stato il volano di conoscenza per altri gruppi dell’epoca che stavano incominciando a prendere forma nel Salento e quindi come una forma didattica di propedeutica musicale. Ci incontravamo, suonavamo, ballavamo, facevamo vedere video, filmati. In quel gruppo cominciò una rivisitazione di tutta l’idea di musica popolare, cioè si passò da una forma prettamente di riproposta politica a qualcosa di più artistico, rimettemmo mano un po’ al concetto di musica, di riproposta. E’ stato per me un buon gruppo perché ha iniziato un processo, continuato successivamente da altri gruppi, perché ha iniziato un processo artistico ereditato dagl’anni settanta e ottanta che ci ha permesso di spaziare di più nella musica popolare, incominciando a considerarla cultura piuttosto che opposizione rispetto alla politica. Quest’esperienza è durata cinque anni finchè alcuni, tra cui io, abbiamo chiuso la nostra esperienza con il Canzoniere Della Terra D’Ontranto con la pubblicazione del disco Bassa Musica. Successivamente abbiamo dato vita al gruppo Aramirè, che è stato per me l’espressione più importante negl’ultimi anni di come va trattata questa musica, ovvero con molta attenzione senza approssimazione. Abbiamo cercato di esaltare alcune caratteristiche della tradizione Salentina come la polivocalità, l’attenzione ai modi di riproposta e gli aspetti prettamente ritmici. Questo ci è stato possibile farlo perché le mie conoscenze all’interno di questi tre gruppi erano stati tali da permettermi di riversare in questo gruppo tutta l’esperienza di ricerca e quindi dal punto di vista culturale eravamo pressocchè inattaccabili e perché venivamo fuori da esperienze di ricerca fatte con Rina Durante e altri personaggi di questo calibro. Poi c’era la presenza di Sandro Girasoli, che era l’unico musicista di formazione di conservatorio che in quel periodo si dedicava alla musica popolare. Lui è diplomato in composizione e quindi attraverso la sua conoscenza specifica, pur essendo stato difficile fargli perdere alcuni preconcetti rispetto alla musica popolare, quando lui ha accettato l’idea di confrontarsi con essa, è stato ineccepibile per la costruzione di alcuni pezzi diventati simbolo di Aramirè come Nazzu Nazzu, la Ninna Nanna, Pinna Ponna o ancora la costruzione della pizzica con il violino che non ha eguali attualmente. Insomma non solo abbiamo conservato gli aspetti della tradizione ma abbiamo puntato ad immettere elementi di innovazione per rendere questa musica “alta” senza snaturare la tradizione. Ciò è stato possibile perché la mia presenza garantiva una copertura culturale e politica a trecento sessanta gradi che nessuno all’interno del gruppo poteva dare ma sia per la giovane età sia per l’esperienza. E’ stata un esperienza esaltante, nel giro di cinque sei anni abbiamo prodotto dell’ottima musica e abbiamo lasciato una traccia importante. Poi ci siamo trovati in un calderone di situazioni che stavano succedendo in quel periodo, e ognuno ha seguito i propri istinti e le proprie ambizioni e così alcuni di noi sono usciti ma non abbiamo sciolto il gruppo, perché altri hanno giustamente continuato, salvo poi sciogliersi pochi anni dopo. E’ stato un lavoro bellissimo ma molto faticoso, perché tenere insieme un gruppo è difficile, perché si ci confronta con dinamiche pesanti, interpersonali e questo soprattutto per l’età molto differenti tra loro. Pensa che si passava dai vent’anni di Antonio e Mauro, il tamburellista e il chitarrista a gente con venticinque trent’anni di esperienza come me, e volente o nolente l’approccio era diverso. Fino ad un certo punto è stato possibile tenere tutto insieme poi siamo usciti dal gruppo.

Quanto è stato importante la politica negl’anni settanta nella riproposta e quanto è importante ancora…

C’è un dato importante di cui tener conto, negl’anni settanta e ottanta erano gli intellettuali a determinare la presa di coscienza politica rispetto a questo ambito. All’epoca c’erano intellettuali come Rina Durante, Vittorio Pagano, Alda De Jaco, e parlo solo del Salento, ma potrei citartene altri centomila a livello nazionale, come Bosio, Pietralgeli, Della Mea, Giovanna Marini. Questi intellettuali con il loro lavoro determinavano la coscienza politica rispetto a queste problematiche e poi i politici potevano intervenire con la progettazione. Oggi sono i politici a determinare le scelte culturali non ci sono più gli intellettuali capaci di dettare una linea sulla quale poi i politici devono far convergere le risorse. Oggi i politici decidono loro come e dove far convergere le risorse, decidono chi debba essere il maestro concertatore, verso quale forma di rinnovamento puntare . Non ho letto alcuna presa di posizione da parte di musicisti o degli etnomusicologi su un argomento spinoso emerso quest’anno, ovvero su quale nuova forma doveva assumere La Notte Della Taranta. L’unico intervento lo ha fatto Sergio Blasi, giustamente, e la risposta l’ha data un altro politico che ha detto che prima di parlare di cambiamento è necessario trovare i soldi. Ogni anno è la stessa sinfonia, bisogna cambiare e bisogna trovare i soldi. Gli intellettuali hanno lasciato il campo aperto e i politici fanno non solo la loro parte ma anche quella degli intellettuali. Se sia un bene o un male non lo so ma per quanto mi riguarda è una complicazione non da poco, perché non ti permette di muoverti con assoluta libertà. Rispetto alla riproposta in se stessa non c’è una progettazione generale, quando ci muovevamo con il Canzoniere Grecanico Salentino o con il Canzoniere della Terra D’Otranto o ancora con Aramirè, sempre con le dovute differenze, c’era una progettazione generale dove adattare il nostro modo di fare proposta. Quei ragazzi che nel 1989 sono venuti a dirmi che volevano fare musica avrebbero potuto suonare qualsiasi cosa, i Beatles, il jazz ma avevano scelto di fare musica popolare ed è stata quella motivazione a spingermi a tornare a fare musica. Non avrei mai accettato se non ci fosse stata quella motivazione, che era conoscenza delle proprie radici, conoscenza del proprio territorio e della musica. Oggi manca un progetto, un contenitore all’interno del quale ci sono molte sfaccettature che fanno parte di un unico ceppo. Si procede a vista, senza sapere se si farà la Notte della Taranta. Voglio dire Canti di Passione che abbiamo fatto per otto anni, lo scorso anno non si è tenuta perché non c’erano i fondi. Ti garantisco che era una delle manifestazioni più intelligenti che la Grecìa Salentina abbia proposto negli ultimi anni, ricca di contenuti, tanto che stava cominciando a prendere forma una sorta turismo religioso al punto che avevano prenotato anche dalla Scandinavia per vedere questa manifestazione. Non c’è un contenitore all’interno del quale si muoverà la programmazione. Si può sbagliare la tattica ma la strategia non può cambiare ogni due minuti, a seconda se il vento spira da un lato o dall’altro. Naturalmente questo ti dà anche l’indicatore di quello che è questo magma dove ci si muove, e ognuno si inventa la ricerca come vuole, si inventa il papà di Tizio, il papà di Caio. E’ un terreno molto friabile dove non c’è un tessuto collante dove c’è si può sviluppare una progettazione complessiva. Qualcuno ha in mente un progettazione che poi ci propone in sintesi con qualche storia, che può essere giusta, sbagliata, ma può essere che il prossimo anno non ci sarà più niente solo perché è cambiata l’amministrazione politica.

Ha parlato ampiamente del problema dell’Archivio, vorrei che però che ci illustrasse anche il lavoro dell’Istituto Diego Carpitella.

Quando abbiamo fondato l’Istituto Diego Carpitella, io ho impiegato tre anni di lavoro perché l’obiettivo fondamentale era quello non tanto di fare l’Istituto ma quello di convincere i comuni che dovevano aderire a fare delle delibere quinquennali, per preservarlo da eventuali cambiamenti politici all’interno dell’amministrazione. Da queste parti bastano dieci voti per spostare un amministrazione da destra a sinistra. La preoccupazione era quella di dire agli enti, se volte aderire dovete fare questo tipo di discorso. E’ stato questo poi il motivo per il quale me ne sono distaccato, perché vedevo consumarsi in una notte tutto il lavoro di tre anni. In una notte è possibile spendere venticinque milioni senza poi avere un archivio che supporti lo studio della musica popolare? Questa è la differenza rispetto agli anni settanta, con i politici che fanno gli intellettuali per demerito degli intellettuali che non fanno più il loro mestiere. I politici determinano scelte culturali e politiche che non guardano alla società direttamente perché il politico che per natura non dice mai no a nessuno, l’intellettuale può farlo assumendosene al responsabilità, perché non è soggetto al voto popolare. Sembra così che tutti sono in grado di suonare, di fare un film, di programmare, ma non è così. Per parlare di musica bisognerebbe aver letto o meglio ancora fatto un po’ di ricerca. Che mi risulta in pochissimi hanno fatto ricerca, solo Enza, Dario Muci e un po’ Morabito si sono impegnati in questo lavoro. E’ ben poca cosa però rispetto ad movimento che poi coinvolge centinaia di persone. Ci sono tutta una serie di contraddizioni che andrebbero abbattute, rivisitate. Il Salento in questo momento non ha intellettuali in grado di dettare una linea di questo tipo. Siamo orfani di quelle figure carismatiche di cui ti ho parlato prima, quelle figure che quando si opponevano ad una linea politica, riuscivano a fare un movimento, a dettare una linea politica all’interno della quale muoversi in modo alternativo alle proposte politiche.

E un problema generale e non solo del Salento…

Verissimo, il Salento non è privilegiato rispetto ad altre zone, ma qui da noi ci sono problematiche più specifiche. Qui si fanno delle scelte che non portano alla valorizzazione delle risorse, a spingere verso il raggiungimento di traguardi di carattere consorziale, verso la valorizzazione del mondo del lavoro. Ho parlato prima dei tamburelli cinesi, e allora dico almeno difendiamo quello strumento che ha dato inizio a tutto questo movimento. Amo i cinesi, ma ci sono alcune cose che vanno preservate rispetto all’andamento generale. Fare ricerca significa anche capire dove si muove l’immaginario collettivo che tipi di problematiche muove la gente del Salento, e quando parlo di gente mi riferisco al Selento nella sua complessità generale non soltanto a chi ha studiato a chi ha letto ma è la frequentazione della gente che ti da il senso comune. Io vivo questa enorme contraddizione, ovvero quello che è il Salento verso e che si vede si sente, ma è presente in Italia nel bene e nel male però è importante capire come salvare gli aspetti importanti per trasformarli in posti di lavoro, in occasione di rilancio vera per la nostra terra. Questo avveniva qualche decennio fa, poi magari sbagliavamo, perché dire che tutto ciò che è popolare è rivoluzionario è stata una fesseria grossa ma questa non era solo una nostra teoria, era quella di Roberto de Simone, ma la grandezza di questi personaggi è stata quella di reinventarsi e di trovare nuove energie, nuove strade. Questa è la storia del Salento, adesso, e vedo tanta confusione e forse più di quanta ce ne era vent’anni fa.


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